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Villarosa => La storia => Discussione aperta da: osvaldo - 19 Aprile 2009, 19:36:47



Titolo: ANTICHI CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 19 Aprile 2009, 19:36:47
Qualche tempo fa ho annunciato che avrei avviato una ricerca, ovviamente aperta alla collaborazione di tutti, sugli aspetti economici e sociali più tristi della nostra terra nei decenni trascorsi.
Mi sovviene un pensiero di Gesualdo Bufalino che citando ricordi più datati di sua madre, parlava di un tempo in cui si poteva rompere un rapporto di buon vicinato solo a causa della restituzione di un uovo più piccolo rispetto a quello anticipato in prestito.
Cos’è oggi un uovo? Una modica spesa. Nel passato no.
In tempi non molto lontani, quasi in ogni casa, si allevavano le galline che di giorno si lasciavano razzolare per le vie alla continua e instancabile ricerca di qualche granello, mollichina, insettuccio, foglia di  scarto di verdure ed anche di escrementi di bimbi che venivano deposti con naturalezza al margine della strada.
Le immagini possono dire più delle mie parole: fra le foto delle vie di Villarosa pubblicate sul sito e messe a confronto tra presente e passato, sono ritratte infallibilmente galline intente alla ricerca di cibo, persino nella centralissima via Deodato, parallela del Corso principale, proprio davanti alla vecchia Caserma dei Carabinieri.
Fa più tristezza sapere che quelle uova spesso non nutrivano i figlioli delle proprietarie delle bestiole, ma venivano vendute per ricavarne qualche spicciolo destinato a più urgenti bisogni.
Ho raccolto, frugando fra la mia memoria, qualche episodio in tema, che spero di pubblicare in seguito. Intanto gradirei che villarosani, e non, facessero altrettanto o raccogliessero dalla viva voce di anziani fatti e situazioni che senza offendere nessuno noi possiamo tramandare a chi arriverà dopo, evitando il rischio che essi possano pensare che il mondo fosse sempre stato come l’avranno trovato.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: cigliazza - 20 Aprile 2009, 16:06:24
Lasciar vagare le galline in giro per il paese era un'usanza comunissima. La sera ognuno riprendeva le proprie, senza toccare quelle altrui.
Qualcuno possedeva anche i cosiddetti "papì", lasciati gironzolare al pari delle galline.
Che io sappia, in tempi ancora più lontani, qualcuno allevava anche i porcellini d'India, ma per questa informazione chiedo l'aiuto degli utenti più anziani...


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: toliveri - 20 Aprile 2009, 18:41:57
Lasciar vagare le galline in giro per il paese era un'usanza comunissima. La sera ognuno riprendeva le proprie, senza toccare quelle altrui.
Qualcuno possedeva anche i cosiddetti "papì", lasciati gironzolare al pari delle galline.
Che io sappia, in tempi ancora più lontani, qualcuno allevava anche i porcellini d'India, ma per questa informazione chiedo l'aiuto degli utenti più anziani...
negli anni50era normale allevare le galline Lasciar vagare le galline in giro per il paese era un'usanza comunissima .   qualcuno allevava anche qualche maialino che ingrassavano coi rifiuti dei vicini .e a Natale andavano al macello afarlo macellare....


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 20 Aprile 2009, 23:17:04
Lasciar vagare le galline in giro per il paese era un'usanza comunissima. La sera ognuno riprendeva le proprie, senza toccare quelle altrui.
Qualcuno possedeva anche i cosiddetti "papì", lasciati gironzolare al pari delle galline.
Che io sappia, in tempi ancora più lontani, qualcuno allevava anche i porcellini d'India, ma per questa informazione chiedo l'aiuto degli utenti più anziani...
L'uovo era l'alimento proteico più comune;la carne costava molto; la gallina quando invecchiava e dava poche uova veniva uccisa per le feste. Ma non sempre, spesso si vendeva per i soliti spiccioli: a tal proposito conosco un episodio che mi fu riferito dal protagonista stesso; lo tratterò in seguito. I porcellini d'india erano dei piccoli roditori con pelliccia più rassomiglianti a piccoli conigli che a maialini: erano molto rari perchè rendevano poco. I "papì" erano i tacchini: erano più rari delle galline ed ancor più lo erano le oche. I , a differenza di quanto avveniva in altri paesi vicini, erano molto rari a Villarosa: qualcuno veniva allevato in periferia e non certo arrivavano in via Deodato...
[Aggiungo una nota curiosa che  non c'entra col discorso: appena scrivo in tutte le forme possibili l'animale con cui si confeziona la salsiccia, la parola mi viene "censurata". Provo ancora a scriverle tutte e vediamo che succede: maiale - parola censurata - suino .... Nell'anteprima ora due le trovo ma quella che comincia con p e finisce con o, mi è stata censurata. Com'è precisa la censura: nemmeno in RAI ai tempi della vecchia DC! - Informo chi di dovere che mi riferivo ad animali e non a persone: lo giuro!]
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Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 21 Aprile 2009, 23:26:18
Sempre a proposito di galline. Razzolavano per le vie dal mattino presto quando la massaia metteva fuori "a caggia"; al tramonto si tenevano vicine al pollaio per il riposo notturno. La gallina non dormiva coi piedi a terra, ma sul trespolo, che era una barra di legno fissata a due estremità della stia. La padrona le chiamava a raccolta in vari modi. A seconda del paese d'origine delle famiglie si usava un richiamo diverso; alcune usavano gridare "puripo'  ... puripo'". Secondo l'interpretazione di alcuni, questo era il richiamo tipico dei paesi d'antica origine gallica, tipo Sperlinga e Nicosia, e si sarebbe trattato dell'espressione d'antico francese "Pour  repos".
Non sempre tutte le galline tornavano al pollaio, qualcuna sì, quando era "straviata", cioè aveva perso l'orientamento. Quando non tornava qualche mano se l'era presa per il brodo del giorno dopo. Era un evento quasi tragico per la povera padrona che lanciava maledizioni alla vicina presunta ladra. La mattina presto dopo una notte forse insonne andava in giro per le vie intorno per vedere se ci fossero sparse tra le immondizie del quartiere piume e penne del colore della gallina scomparsa.
Allo scopo di riconoscere le proprie galline contro ogni contestazione, si usava ritagliare tanti pezzettini di stoffa d'una stessa pezza e ognuno di questi si cuciva con ago e filo, a vivo, all'estremo lembo di pelle dell'ala dei poveri animali.
Per rinnovare il pollaio a primavera, quando le galline diventavano chiocce, la temperatura del corpo s'innalzava, la padrona preparava un giaciglio di paglia "nno n' cufìnu", vi metteva una ventina di uova e sopra vi si adagiava la chioccia, futura madre di uova non tutte sue.
Qui essa stava tranquilla per tre settimane: beveva da un bicchiere con acqua affondato nella paglia per non farlo rovesciare. Si faceva scendere una volta al giorno per mangiare e per defecare. Le uova venivano coperte con uno scialle di lana, ma il pensiero assillante della chioccia era di tornare a covare.
Al 21° giorno i primi pulcini dall'interno del guscio praticavano un buchino e a poco a poco venivano fuori. La massaia toglieva da sotto la madre i neonati che erano posti "nno munniddu" coperti d'una stoffa di lana. Era commovente vedere quelle creaturine uscite dal guscio umide che sembravano spelacchiate e subito asciugatesi sembravano batuffolini di fine cotone.  Quando l'ultimo uovo si schiudeva, la chioccia saltava "do cufìnu" e chiamava a raccolta i bioccoli che la seguivano per qualche settimana, fin quando divenivano in grado di beccare da soli. Quello era uno spettacolo che oggi non è consentito alle giovani generazioni. Oggi si usano le incubatrici e il tutto è industrializzato.
Se qualcuno pensasse di creare un ambiente a caldo per 21 giorni a delle uova, stia tranquillo che non succederebbe nulla. Quelle che compriamo al supermercato sono uova di galline... “signorine”.
Senza il gallo l'uovo è incompleto, per questo in ogni pollaio c'era almeno un gallo, in quelli più grandi tre, mai due, perché finirebbero per ammazzarsi tra loro...


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 22 Aprile 2009, 21:50:47
                                                  A TTI DI L’UVU! Vedi anche: www.bellarrosa.blogspot.com

Fin da ragazzo ogni tanto sentivo ripetere con una certa amarezza questa espressione. Chiesi spiegazione e mi fu fatto il nome di un certo professionista villarosano che aveva delle terre nel vicino Santo Rocco, proprio sotto dove finisce il corso Regina Margherita verso nord, s’affacciava di lì e osservava gli zappatori “all’antu” che affiancati procedevano per rimuovere la terra. Quando il padrone riteneva che il ritmo lavorativo s’allentava, portava ambo le mani aperte a mo’ di megafono ai bordi della bocca e gran voce gridava: - A tti di l’uvu!
Quasi d’incanto il ritmo accelerava.
Soddisfatto tornava al tavolo da gioco nel vicino Circolo dei Galantuomini, che si trovava dove oggi sorge il Municipio. Quando poi voleva sgranchirsi le gambe tornava alla “timpa” panoramica e ripeteva il solito grido a cui seguiva identico risultato.
Quale effetto magico potevano avere quelle quattro brevi parole?
Ogni tanto il furbo professionista all’atto di dare il salario, ai più valenti zappatori lasciava scivolare furtivamente un uovo in una tasca e sussurrava con tono amoroso: - Ppo picciriddu.
I beneficiati si sentivano in obbligo verso il padrone e ricambiavano la cortesia con maggiore solerzia nel ritmo di lavoro, stimolando implicitamente gli altri, che ignari ne seguivano l’esempio.
Sono arrivato a questa mia età ritenendo che l’astuzia del proprietario villarosano fosse una sua originale trovata.
Un giorno parlando con un mio amico della mia stessa età, originario di Adrano, appresi per caso e con meraviglia lo stesso episodio che egli attribuiva a tale barone C.
Qualche giorno dopo, in altra sede, volli far cadere il discorso su questo genere di astuzie con un professionista di Giardini. Pure lui mi confermò che in tempi ormai lontani nella sua cittadina aveva conosciuto un possidente che si comportava allo stesso modo.
Tutti ricchi possidenti e tutti uguali col tarlo dello sfruttamento al massimo del povero bracciante.
Tutti della stessa pasta, ma con una differenza, solo di carattere dialettale:
Da noi: - A tti di l’uvu!
Là: - A tti di l’ovu!


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: cigliazza - 26 Aprile 2009, 10:01:30
Non avevo mai sentito dire questa espressione...


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 21 Maggio 2009, 23:28:18
 LA STORIA DI PEPPI E DEI SUOI “FRATELLI”  Vedi anche: www.bellarrosa.blogspot.com

Erano tristi i tempi passati, specialmente per i poveri, gli sfortunati disabili, gli  invalidi del lavoro, i lavoratori giornalieri che d'inverno facevano la fame.
Prima d'introdurre una breve storia in cui è vittima un gallina, il protagonista umano mi induce a ricordare che, in aggiunta alla sua povertà, c'era quella di trovatello, “pigliatu do turnu”.
I casi frequentissimi di povertà incoraggiavano molti ricchi ad abusare di povere ragazze, in genere servette di casa. L'antica usanza feudale del “jus primae noctis” anche se ufficialmente non sussisteva, sotto sotto era sempre vigente fra nobili e borghesi.
I frutti di questi abusi nottetempo venivano depositati presso qualche badìa. L'incaricato faceva girare una ruota e davanti a sé all'esterno gli arrivava un piccolo ricettacolo a guisa di culletta atto a contenere un neonato; quindi suonava il campanaccio del portone e attendeva che una monaca rigirasse la ruota e portasse dentro al riparo il pargoletto.
Queste povere creaturine, considerate frutto del peccato, erano rifiutate da chi l'aveva messe al mondo e accolti come appestati dalla comunità umana... legittimata dai crismi dell'ipocrisia imperante.
La gente li chiamava “muli”.
Ricordo un giovane padre di famiglia robusto e muscoloso, uno dei primi a lasciare il paese nel dopoguerra, che non aveva cognome per i villarosani, per tutti era “Cicciu u mulu”.
Un altro poveretto, grande invalido cieco della Grande Guerra, non era chiamato col suo cognome, ma era per tutti era “u proiettu”.
Io ragazzo confondevo quel nomignolo con la parola “puietu”, poeta.
Quando fui più grande mi chiedevo perchè non partecipasse a nessuna gara di poesia  e scoprii che il suo era uno sprezzante nomignolo che indicava lo stato di “rifiutato, abbandonato, lanciato, buttato”.
Di questi esempi se ne potrebbero citare a decine.
Tutto ciò non era solamente un problema di forma, ma di sostanza: c'era un comune disprezzo  per questi sfortunati nostri fratelli. Non sentii mai levare una voce in loro favore da nessun pulpito o cattedra: disconosciuti da quelli che li misero al mondo e reietti della società che li accoglieva.
Raccontava mia nonna che molti di questi poveretti disprezzati nel loro paese, quando riuscirono ad  emigrare negli USA non diedero più nessuna notizia di sé. I sapientoni locali commentavano questa giustificata risoluzione con un detto allora comune: “Puru cche muli cci voli furtuna”.
Ad onor del vero bisogna dire che i casi di disprezzo dell'affiliato non erano la totalità, almeno in famiglia. Gli affiliati della mia generazione erano più integrati in casa e in tantissime non si notava affatto la differenza: conosco qualche caso in cui si aveva un occhio particolare per il figlio non di sangue. 
Putroppo molte altre famiglie i figli legittimi mal sopportavano “u mulu” di casa...
Gli stessi cognomi talvolta denotano ancora oggi un'antica triste condizione: Proietti, Trovato, Esposito, ecc...
Oggi, ad esempio, non facciamo caso a tantissimi cognomi al femminile: erano i figli d'una “criata” di casa che col permesso del padrone, padre inconfessato, tratteneva il bimbo fra la servitù e al battesimo la creatura era registrata col cognome ricavato dal nome della madre.
Quelli deposti in qualche istituto venivano affidati a coppie senza figli o a poveretti che per un misero sussidio da parte della Prefetto se li tenevano in casa per affidarli come “carusi” a un picconiere o per fruire, dopo i primissimi anni, dell' aiuto nel lavoro del campicello.
Il personaggio che segue, Peppi, appartiene a questa categoria e la sua storia, a me da lui stesso raccontata, è una testimonianza diretta.
Egli, più anziano di me, visse a cavallo tra l'antica visione crudele e quella più umana vicina al mio tempo.
A gnura Pruvidenzia aveva avuto solamente figlie femmine e il maschio tanto atteso che aiutasse il marito nel lavoro del misero poderetto non arrivò. Decisero così di  farsi affidare un “trovatello”, che chiamarono Peppi, che crebbe tra casa e campo.
L'idea fissa da gnura Pruvidenzia era quella di dotare le figlie d'un modesto corredo, così s'industriava come meglio poteva  vendendo alle vicine qualche mazzo di verdura che Peppi le portava dalla campagna e le uova delle sue galline che teneva nella stalla insieme con il mulo.
Era la loro una comune casa di poveri contadini, dove  il risparmio era una necessaria consuetudine. L'alimentazione era quella che proveniva dal campicello e la vendita delle uova e della carne dei galletti serviva a comprare pezze di tela e percalle che le figliole ricamavano con estrema cura.
Non c'erano spese extra; dal macellaio non s'entrava nemmeno.
Peppi poteva mangiare in abbondanza carne di pollo solo quando “u morbu de' gaddini” (una specie di aviaria che ogni tanto faceva strage di pollame) colpiva l'economia domestica da gnura Pruvidenzia e delle altre massaie del paese.
“A carni ammurbata” non aveva il gusto  saporoso di quella del pollo scannato, ma Peppi  s'adattava.
Ci fu un periodo che il temutissimo morbo non colpì i pollai di Villarosa; il desiderio di carne era divenuto struggente in Peppi, ma non succedeva niente per consolare la bramosia di un bel cosciotto di pollo...
Una mattina la smania era più pungente del solito; aveva in mano la zappa che stava legando alla sella del mulo, quando la brandì in alto e l'appioppò con forza sul dorso d'una innocente gallina che l'era capitata davanti.
Peppi la prese e  facendosi il viso afflitto andò dalla madre incolpando del delitto il mulo.
A gnura Pruvidenzia scaricò “na sarsuliata” di imprecazioni contro il mulo e alla sua mala sorte, mentre Peppi riprendeva la via della stalla.
Quel giorno Peppi lavorò di buona lena consapevole che a casa l'aspettava un caldo brodo e un porzione tutta sua di pollame...
La sera invece trovò un caldo piatto di pasta e lenticchie, di cui la gnura Pruvidenzia sapeva che il suo Peppi andava matto.
Il povero contadino, per nulla consolato dal consueto legume, incredulo esclamò: - E a gaddina?
La buona donna l'aveva venduta a donna Pina...
La sera seguente ci fu una mezza sorpresa, la povera madre, che amava tanto il suo figliolo, gli fece trovare a cena due pezzetti di baccalà fritto.
Questo pesce salato, a differenza di oggi che costa un po' più della carne, allora ne era un surrogato di proteine per le famiglie povere; nelle feste e in particolari avvenimenti familiari.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: cigliazza - 22 Maggio 2009, 11:50:21
Grazie osvaldo per la storia raccontataci  :good:

Ero a conoscenza della premessa che hai raccontato, il termine "mulo" lo sento dire ancora oggi per indicare i figli illegittimi o presi in casa.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 22 Maggio 2009, 19:48:01
Anch'io sapevo  di queste situazioni un po "ambigue"
ma mi chiedo, Osvaldo,
in che misura il fenomeno di figli illeggittimi o orfanelli/abbandonati fosse presenti nel nostro paese; "la bussola", "la ruota", ne avevamo molte a Villarosa?
C'erano degli orfanotrofi?




Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 22 Maggio 2009, 22:19:02
Anch'io sapevo  di queste situazioni un po "ambigue"
ma mi chiedo, Osvaldo,
in che misura il fenomeno di figli illeggittimi o orfanelli/abbandonati fosse presenti nel nostro paese; "la bussola", "la ruota", ne avevamo molte a Villarosa?
C'erano degli orfanotrofi?


                                                Ancora di casi di trovatelli e comune miseria

Di ruota a Villarosa non ne ho mai sentito parlare; in vari tempi ci sono stati orfanotrofi  maschili e femminili. La famiglia della nonna paterna era d'un paese della provincia di Caltanissetta (come lo era allora pure Villarosa) e mio padre mi parlava del marito d'una cugina di lì che era noto a tutti col nomignolo di “giralarota”, a Villarosa c'era una donna che nessuno la nominava col suo vero cognome, per tutti era “donna L. a turnara”
Ho conosciuto tante persone che oggi non sono più che avevano cognomi di fantasia, ma si consideravano figli di borghesi di Villarosa. Nessuno però è stato in grado di appurare la veridicità delle loro personalissime affermazioni. Faccio solo qualche cognome di “padri in pectore”: Fiorentino, Notarianni, Marguglio, ecc... ma saranno stati veri padri naturali o erano “genitori immaginari”creati dal desiderio di avere un'identità di rivalsa che supplisse alle umiliazioni subite?
C'era una signora sposata ad un modesto artigiano locale, che da notizie uscite dalla famiglia, periodicamente si recava ad Enna in casa di un noto barone  e ritornava con le sporte piene di cibarie. In quella casa l'accoglievano tacitamente, senza crismi di legalità, ma tutti i familiari legittimi  la consideravano figlia spuria del barone...
Decenni addietro un nostro concittadino era umanamente smanioso di conoscere la vera origine; s'era convinto di discendere da un nobile casato, ma dalle ricerche approfondite scoprì un caso di estrema miseria in tutti i sensi.
Come non capire il dramma di questi poveretti!
Per stare sul tema dei casi di comune miseria, un nobile, un ricco gabelloto o un galantuomo che s'era stufato di una donna che s'era goduta, le dava il “ben servito”: faceva sapere nella masseria e nei dintorni che dotava la sua ex di un mulo (questa volta si tratta del comune quadrupede).
Possedere un animale da soma per un poveraccio era il massimo che si potesse desiderare, così si trovava sempre qualcuno che sposasse una donna "disonorata" pur di passare ad una condizione migliore!


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 23 Maggio 2009, 15:09:21
Osvaldo,
hai parlato di condizione di miseria, di scala sociale, come si articolava nello specifico? mi spiego meglio, Villarosa era economicamente distinta in grandi comparti: Minatori, Contadini, Borghesi. Nobili (pochi)
All'interno di questi comparti (non parlo di classi volutamente)
c'era una scala sociale?, penso determinata dallo status economico e dalla condizione familiare. Esempio c'era il massaro, il mezzadro, il gabellotto......
c'era il picconiere, l'arditore, ....il caruso....

e poi?
ad esempio a scuola andavano tutti assieme o i figli dei benestanti avevano un "maestro" privato....

Ricordi qualcosa, in merito al periodo della tua infanzia relativo a questa suddivisione o hai qualche ricordo dei tempi della scuola?


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 24 Maggio 2009, 00:11:13
Osvaldo, hai parlato di condizione di miseria, di scala sociale, come si articolava nello specifico? mi spiego meglio, Villarosa era economicamente distinta in grandi comparti: Minatori, Contadini, Borghesi. Nobili (pochi)
All'interno di questi comparti (non parlo di classi volutamente) c'era una scala sociale?, penso determinata dallo status economico e dalla condizione familiare. Esempio c'era il massaro, il mezzadro, il gabellotto...... c'era il picconiere, l'arditore, ....il caruso....e poi?
ad esempio a scuola andavano tutti assieme o i figli dei benestanti avevano un "maestro" privato....
Ricordi qualcosa, in merito al periodo della tua infanzia relativo a questa suddivisione o hai qualche ricordo dei tempi della scuola?

Cominciamo dai copricapi: "cuppuli e cappedda".
Erano in sommi capi i segni più vistosi d'una certa distinzione sociale, che però non era obbligata come una divisa. Di festa qualche artigiano usciva in piazza col cappello.
Altra distinzione: Don e Donna e Mastru e Gnura
1946: prime elezioni amministrative. A Villarosa erano in lizza due liste: quella della Democrazia Cristiana e quella civica con emblema il Leone capeggiata da un ex sindaco del periodo prefascista, don Peppino Profeta, a cui s'erano unite le sinistre.
Mio padre fu eletto e mai più si preentò. Io dodicenne seguivo le vicende democratiche che per me erano assolute novità.
Vinse la lista popolare e subito spontaneamente si formò un immenso e composto corteo che fece il giro del paese.
Mi colpì la frase di un signore che rivolgendosi a mio padre disse: - nun cc'è mancu un cappiddu!
Io curioso salii su degli scalini della via Milano e appurai l'affermazione appena sentita.
C'era pure una zona intermedia fra il Don e il Mastro, che si risolveva con “zzi”: zzi Pe', zzi Turì, zzi Marì, zzi Minichì....
Sconfinare da queste regole comportava biasimo ed ironia: c'era una donna che proclamava, in italiano: - Io sono la signora Alessi... ma la si compativa come persona un po' stramba...
Artigiani, commercianti, impiegati e rispettive mogli erano chiamati col Don e Donna.
Fino agli anni '60 i contadini, anche i più facoltosi, d'inverno usavano “ a scappulara” , scapolare, una specie di pesante mantello con cappuccio. Gli altri s'arrangiavano come potevano...
In tempi più antichi, professionisti e galantuomini, portavano eleganti mantelli. Ai tempi della mia infanzia chi si voleva distinguere dal popolino indossava il cappotto.
Come si evince c'era una scala sociale variegata che ciascuno rispettava per timore d'essere preso in giro, ma non c'era un obbligo legale: era una convenzione tacitamente rispettata.
In fondo era il reddito che creava il discrimine. In ogni categoria c'era anche una scala di  valori a seconda  delle capacità professionali o dal modo di proporsi al prossimo.
I vari mondi sociali erano poco permeabili, ma si poteva passare dall'uno all'altro nel corso delle generazioni. Importante era la considerazione  morale della famiglia, ma il reddito e il potere erano più attraenti, come oggi del resto.
Della scala agricola l'ultimo era, ed è ancora, “u jurnataru”; di quella zolfifera “ u panuttaru”, quello che impastava le polveri inerti miste a scagliette di zolfo che asciugate venivano infornate per trarne       un po' di zolfo liquido. I “panutti” formavano “u ginisi” che era un ottimo materiale idrorepellente per costruire stradelle, ovviamente adatte ai tempi.
Teoricamente la scuola era aperta  a tutti, in effetti ad una striminzita minoranza. Un solo esempio potrà dare un'idea approssimativa. Nella mia prima classe, anno scolastico 1940-41, gli iscritti eravamo 56 [ho la fotocopia del registro]; qualche altra classe prima non ne aveva di meno. Non  tutti i nati del 1934 [si tenga presente che allora mancavano poche decine di abitanti per arrivare ai 12.000] varcarono quel primo ottobre il portone del novello palazzo scolastico Silvio Pellico”, almeno altrettanti erano per le strade del paese o in campagna. Dei miei 56 compagni in quinta se ne potevano contare si e no quante le dita d'una mano e gli altri dieci erano i reduci delle altre prime e qualche ripetente. Restavano fuori della scuola i poveri che non possedevano un paio di scarpe.
Fra le gallerie di foto del sito ce n'è una di gruppo dove la metà dei ritratti seduti a terra mostrano con assoluta naturalezza i piedi nudi. La foto mi pare degli anni '50, lascio immaginare quanti piedi scalzi nei decenni precedenti...


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 24 Maggio 2009, 12:40:32
ho presente quella foto


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: lamichetta - 24 Maggio 2009, 15:42:22
Ho fatto vedere quella foto a mio papà (classe 33)e a mia zia,sua sorella,(classe 47). Sono rimasti entrambi stupiti e quasi increduli. non ricordavano di aver mai visto a Villarosa cose del genere


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 26 Maggio 2009, 21:53:31
IL MESSAGGIO è STATO POSTO IN VISIONE AGLI ADM.

Sento il dovere di correggerti nell'opinione errata che ti sei fatta, io conoscevo la famiglia di lamichetta perchè ero quasi coetaneo ed amico del padre del '33, non erano poveri ma nemmeno, come del resto io e molti altri, con la pancia strapiena. Certamente la zia del '47, che io non ricordo, quando avrà avuto i suoi 10 anni ha trovato un mondo cambiato, rispetto al mio che ho 13 anni in più di lei. Quella foto quando la vidi mi ha pure scioccato... Riflettendo poi ritorna tutto in mente...
Sempre a proposito di scarpe c'era un triste quanto veritiero detto: "Cu si susi ppi prima a matina s'acchiappa i scarpi"...


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 04 Giugno 2009, 22:55:28
Non so cos'abbia scritto kosa, ma come al solito è riuscito/a a farsi moderare il post che aveva scritto...


SCUSA HO COMBINATO UN PASTICCIO QUESTA RISPOSTA ERA DESTINATA A LAMICHETTA. IL PADRE DI CIGLIAZZA NON C'ENTRA!
Non c'è niente da rispondere perchè non c'era nessuna offesa. Kosa si meravigliava della meraviglia di tuo padre, vivente all'epoca dei piedi scalzi, e credeva che doveva trattarsi d'uno insensibile perchè con la pancia piena. La mia risposta chiarisce tutto; gli amministratori potevano lasciare benissimamente il post di  Kosa: tanto rumore per nulla.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 05 Giugno 2009, 23:45:21
vorrei chiudere la questione sul messaggio in quarantena:
ERA OFF TOPIC, nel modo forse un po diretto,  per cui proseguiamo serenamente la discussione.

quindi per KOSA tutto in ordine idem per l'amichetta, ma scusate l'eccesso di moderazione, ma visto che il forum di storia è un isola "felice" del sito dove bene o male riusciamo a discutere bene
volevo evitare
che la battuta in buona fede, e spontanea di KOsa, portasse qualche altro utente a divagare su altri temi

scusate l'intromissione e grazie OSVALDO per la precisazione chiarificatrice.



Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: shark - 06 Giugno 2009, 15:37:32
Argomento chiuso ho letto il messaggio di kosa, per evitare le polemiche ho deciso di non ripubblicarlo.


Si continui la discussione sull'argomento.





Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 07 Giugno 2009, 23:36:08
a proposito di miseria e di stenti, come si viveva, e la domanda è rivolta a tutti, dopo il secondo conflitto mondiale a villarosa con i razionamenti e con un alimentazione molto scarsa.

un mio parente emigrato mi raccontava che mandava dal belgio.ogni tipo di alimento possibile, nel periodo 49-54.

addirittura il cioccolato in busta da lettera....


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: jack_sparrow - 09 Giugno 2009, 12:07:51
a proposito di miseria e di stenti, come si viveva, e la domanda è rivolta a tutti, dopo il secondo conflitto mondiale a villarosa con i razionamenti e con un alimentazione molto scarsa.

un mio parente emigrato mi raccontava che mandava dal belgio.ogni tipo di alimento possibile, nel periodo 49-54.

addirittura il cioccolato in busta da lettera....

La percezione che ho io dai racconti dei nonni è che si andava avanti per "baratto" :)
C'è chi aveva le galline e andava avanti a uova...
C'è chi aveva il grano ...  e chi, più fortunato, in campagna aveva un pò di tutto!

E allora per esempio chi aveva solo galline le barattava in cambio di farina con chi non mangiava uova da mesi e così via!


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 09 Giugno 2009, 18:09:59
La percezione che ho io dai racconti dei nonni è che si andava avanti per "baratto" :)
C'è chi aveva le galline e andava avanti a uova...
C'è chi aveva il grano ...  e chi, più fortunato, in campagna aveva un pò di tutto!

E allora per esempio chi aveva solo galline le barattava in cambio di farina con chi non mangiava uova da mesi e così via!

[Intervento di Rommel]...a proposito di miseria e di stenti, come si viveva, e la domanda è rivolta a tutti, dopo il secondo conflitto mondiale a villarosa con i razionamenti e con un alimentazione molto scarsa.

un mio parente emigrato mi raccontava che mandava dal belgio.ogni tipo di alimento possibile, nel periodo 49-54.

addirittura il cioccolato in busta da lettera....



Sento doveroso un mio intervento a proposito di quanto esposto da Rommel e soprattutto quello da jack_sparrow. Prima rispondo a quest'ultimo: il baratto c'è sempre stato ed esiste ancora, anche tra noi: io do una cosa a te  tu dài una cosa a me. Era la forma dominante quando ancora non era stata introdotta la moneta. Ma sono migliaia di anni che il baratto è andato perdendo la sua importanza negli scambi. In tempi vicini a noi il baratto come lo descrive jack_sparrow non era diffuso: "a gnura Pruvidenzia", della quale ho scritto vendeva le uova e la gallina uccisa da Peppi e coi soldi che ricavava comprava tela, percalle e filo per le lenzuola delle figlie.
I tempi del secondo dopoguerra, che io ho vissuto,furono molto tristi. Ma non si pensi che in tempo di pace, prima che io nascessi, le cose andavano tanto meglio. I racconti dei grandi e la letteratura hanno sottolineato la triste situazione economica degli anziani senza pensione, dei minorati fisici, delle famiglie con figlie femmine, dei poveracci che lavoravano per un letterale tozzo di pane...
Già abbiamo parlato del "soccorso morto", del ragazzino consegnato, generalmente a vita, a un picconiere dietro un "prestito" alla famiglia di qualche centinaio di lire che non sarebbe mai stato onorato.
Negli ultimi tempi tristi la fame era la condizione normale della maggioranza della popolazione, in città più che nei paesetti agricoli.
Dopo  la trebbiatura (fatta con asini e muli) le donne andavano nei campi a raccogliere le spighe sfuggite alla falce del mietitore; gli uomini con i rastrelli estirpavano le stoppie [a ristuccia] per poter cucinare il pasto caldo, quando c'era; a fine novembre si entrava negli uliveti a fare "rapocci", a cogliere dall'albero quelle pochissime olive sfuggite "o vrianti" [la pertica], del raccoglitore.
Dopo nei campi non c'era altro se non la cicoria, "a cardedda" che venivano vendute per le strade dai "cicuriari". Prova della penuria imperante è il famoso proverbio: "Prima Natali nè friddu nè fami, duppu Natali lu friddu e la fami".
La guerra aveva interrotto il commercio estero di conseguenza il prezzo degli agrumi era vile e il popolo riempiva un po' la pancia con arance e carrubbe. Quest'ultime oggi non sono più in vendita e man mano che vanno cadendo dall'albero si fanno raccogliere ai [benedetta censura: parlavo di quegli animali con cui si fanno gustose salsicce!] di cui sono ghiotti.
Chi aveva un pezzetto di terra, era figlio di Dio...
Fra questa miseria il Belgio apparve una seconda America. Si conobbe la cioccolata Cote d'or, le sigarette Belga, ecc... Ho parlato "do sbirgisi" che tornava a Villarosa e sposava belle ragazze desiderose di benessere materiale...


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 09 Giugno 2009, 22:39:39
grazie osvaldo,
a riguardo mi viene un'altra domanda, solo il belgio? o anche nord italia?
emigravano tutti: minatori, contadini, muratori?
la crisi colpì tutte le categorie?
e poi penso alle disinfestazioni a ridosso della fine del conflitto dovute alla miseria certamente ma anche alla scarsità di ogni genere di suppellettile o bene di consumo,
studiando per la tesi, mi sono imbattuto in uno stralcio relativo alle disinfestazioni in paese fatte con il DDT perchè c'erano seri problemi igienici, o epidemie....non è chiaro...
ricordi qualcosa?


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 10 Giugno 2009, 22:19:07
grazie osvaldo,
a riguardo mi viene un'altra domanda, solo il belgio? o anche nord italia?
emigravano tutti: minatori, contadini, muratori?
la crisi colpì tutte le categorie?
e poi penso alle disinfestazioni a ridosso della fine del conflitto dovute alla miseria certamente ma anche alla scarsità di ogni genere di suppellettile o bene di consumo,
studiando per la tesi, mi sono imbattuto in uno stralcio relativo alle disinfestazioni in paese fatte con il DDT perchè c'erano seri problemi igienici, o epidemie....non è chiaro...
ricordi qualcosa?

Per quanto riguarda l'emigrazione al Nord Italia è tutt'altra cosa perchè avvenne qualche anno dopo. Più eclatante fu il benessere derivante dal Belgio in quanto seguì ai tempi duri della guerra e del dopoguerra.
A guerra finita i prodotti del Nord giunsero da noi. La mortadella noi bambini non ce la ricordavamo nemmeno. La prima arrivata a Villarosa la vendeva, alla cifra astronomica di 1000 lire al chilo, don Michele Castellano, che una sera raccontava a mio padre che era andato da lui "u figliu di Caliddu", un poveretto della mia età che chiedeva qualche spicciolo ai rari volenterosi, che voleva una lira di quella cosa là... Don Michele si mise a ridere, gliene tagliò una sottilissima fettina e non si prese la liretta...
Il DDT era un'assoluta novità e. a parte la miseria che porta con sè problemi igienici, non esisteva in Italia un insetticida analogo nei risultati. Prima della guerra il Regime aveva dichiarato "guerra alle mosche", ma fu un totale fallimento. Più tardi si faceva ironia sul fascismo e si diceva: non siamo riusciti a sconfiggere le mosche e volevamo farcela con gli anglo-americani?
Nel 1946 scomparvero le mosche; per qualche anno, a pagarla, non se ne trovava una. Era un miracolo. A poco a poco poi riapparvero timidamente. Intanto la condizioni igieniche generali erano cambiate.
Nessuno allora era conoscenza del risvolto negativo del DDT che andava a depositarsi nei tessuti adiposi dei mammiferi e risultò in certi casi cancerogeno.
Il vero miracolo di quegli anni fu l'introduzione della penicillina, scoperta in Inghilterra diversi anni prima, e sconosciuta totalmente in Italia. L'isolamento dell'Italia fascista costò caro a quegli italiani, civili e militari feriti, che morirono per banali infezioni che potevano essere debellate facilmente.



Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 11 Giugno 2009, 13:50:32
in qualche foto ho notato la scritta "DDT" sui muri, ma si riferiva a quel periodo?
riguardo miserie e condizioni di quel tempo, l'acqua non era corrente in tutte le case ma c'erano diversi fontanili, uno mi sembra in corso regina margherita..che ancora oggi si intravede , o ricordo male.
 


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: niki - 11 Giugno 2009, 13:57:00
in qualche foto ho notato la scritta "DDT" sui muri, ma si riferiva a quel periodo?
riguardo miserie e condizioni di quel tempo, l'acqua non era corrente in tutte le case ma c'erano diversi fontanili, uno mi sembra in corso regina margherita..che ancora oggi si intravede , o ricordo male.
 

noi con tutti i miei zii e nonni da parte di mia madre avevamo una casa vicino San giuseppe   e mi ricordo da bambino che li c'era "U cannuliddru" dove si andava a prendere l'acqua perche non c'era in tutte le case.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 11 Giugno 2009, 17:07:14
in qualche foto ho notato la scritta "DDT" sui muri, ma si riferiva a quel periodo?
riguardo miserie e condizioni di quel tempo, l'acqua non era corrente in tutte le case ma c'erano diversi fontanili, uno mi sembra in corso regina margherita..che ancora oggi si intravede , o ricordo male.
 

Si le scritte ai muri di cui parli sono del periodo. Quando si scoprì la pericolosità del DDT si smise. La mancanza d'acqua corrente nelle case era una delle tante cause della mancanza d'igiene. Tornerò sulla politica dell'acqua offerta a tutti, come problema socio-politico. In quanto alle fontanelle, u cannuliddu di Niki, cito altri famosi: quello d'Avampato, incrocio via Milano e via XX settembre; quello "do chianu Di Giugnu": quello d'Abbate, via Palme e via Ruggero Settimo. Un altro era, mi pare in via Falzone, o cuzzu. Gli altri li lascio alla segnalazione d'altri utenti


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: toliveri - 11 Giugno 2009, 18:13:24
 io mi ricordo che abbiamo fatto una colletta fra vicini ed abbiamo fatto la domanta al  comune e ce lanno  eccettato a spese del vicinato era in via candrilli vicino dei Profeta e di casa mia.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: kosa - 12 Giugno 2009, 21:40:37
Ricordo bene,i muri con la scritta in rosso D.D.T.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: kosa - 12 Giugno 2009, 21:47:47
Ricordo bene la scritta in rosso DDT i puntini a volte li mettevano a volte no dipende chi era di turno al comune.Poi i cannola erano anche uno alla via capponi incrocio via casale,uno di fronte a CARRICATURI,uno vicinu i SCIFUNI,belli tempi arrizzanu i carni a sulu pinzarici.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 12 Giugno 2009, 22:01:26
ti ricordi alcune volte c'erano le date.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: kosa - 13 Giugno 2009, 12:55:17
ti ricordi alcune volte c'erano le date.
si c'érano le date ogni punta di cantunera.Ma buttavano il DDT perché molte persone avevano l'abitazione in comune con gli animali domestici  cose del medioevo,adesso quelle persone abitano nelle ville o cuzzulampu e si credono della alta società ma prima vivvevano a minzu a grassura.


Titolo: Re: CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: Rommel - 13 Giugno 2009, 22:22:50
la nostra situazione non era peggiore di tanti borgi rurali del resto d'italia, forse nelle città si stava meglio, ma nei paesi era pressocchè uguale.

negli anni siamo riusciti, grazie al progresso, ad arrivare una vita in condizioni migliori di allora, anche se c'è ancora tanta gente che vive ai margini e con pochi euro al mese...........



Titolo: Re: ANTICHI CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: osvaldo - 18 Gennaio 2010, 23:56:02
                  UN PENOSO SCHERZO DI CARNEVALE  Vedi anche: www.bellarrosa.blogspot.com

Fin dai tempi antichi, anche se con nomi diversi, il Carnevale è stato sempre una manifestazione popolare molto attesa, tanto che in quei giorni persino gli stessi schiavi erano svincolati dall’obbedienza ai rispettivi padroni.
Negli anni della mia infanzia e prima giovinezza i festeggiamenti erano più articolati e partecipati da quasi tutta la comunità cittadina, più di quanto avviene oggi: musica e balli in piazza, mascherate, carri addobbati con più o meno gusto, su cui si rappresentavano sceneggiate da far crepare dalle risate…
Il tutto si rappresentava nel ristretto ambito del paese perché allora non era semplice, com’è ora, di andare a festeggiare altrove.
La festa continuava in casa in compagnia di parenti, amici e vicini di casa. Mi raccontava mio padre che ai tempi della sua infanzia, specialmente nelle famiglie del ceto zolfifero, era comune organizzare a “maccarrunata nna majdda”.
Le donne tutte impastavano la pasta in grossa quantità in una capiente madia, la lavoravano ben bene a forza di polsi per renderla omogenea, poi si mettevano, di buona lena e in allegria, all’opera lunga e paziente di sfilare uno ad uno migliaia di “maccarruna di casa”. Questi erano cotti in una grossa caldaia, si scolavano e si versavano “nna majdda” già  ripulita dei residui dell’ impasto precedente, si condivano col sugo di ragù di maiale… e poi iniziava il clou della festa: tutti ad attingere dall’unico recipiente per mangiarne a volontà,  persino con le mani per dare colore alla serata e far scaturire gioiose gaiezze.  A tanto non potevano mancare vino e salsiccia …
Ad un certo punto spuntava un organetto e tutti a “trippari”, fino a mezzanotte, ma non oltre perché di già si entrava nel mattino delle Ceneri, tempo di Quaresima.
Era triste il carnevale dei tempi di guerra, ma quando questa si concluse il popolo si scatenò quasi a rifarsi del tempo perduto.
Erano però tempi di più dura miseria: le miniere erano ancora chiuse, la porta dell’emigrazione al momento non s’era aperta…
In quel clima carnascialesco in cui era costume consumare in un giorno le risorse di un mese e forse più, le privazioni imposte dalla miseria erano più struggenti di quelle degli altri santi giorni.
La storia che segue è autentica, raccontata a mio padre da un nostro concittadino, che fu dei primi a riprendere il lavoro, dopo l’invasione anglo-americana, nella miniera di Trabonella.
 Il co-protagonista della vicenda era stato un suo capomastro di Caltanissetta che l’aveva raccontata in miniera per sorridere un po’ sulla la trovata agro-amara d’un suo congiunto.
S’avvicinava il Martedì Grasso e nella credenza di Michele, cognato del capomastro, non c’era niente perchè tornato dalla prigionia era ancora disoccupato e senza più il misero sussidio prima erogato alla famiglia. S’aspettava un atto di generosità da parte della sorella, ma ancora niente era arrivato.
Uno di quei pomeriggi era tornato dai campi dove aveva parato di frodo dei lazzi per far cadere in trappola qualche coniglio selvatico da cucinare per la festa, ma la fortuna era stata tutta dalla parte dei conigli.
Svuotò sul tavolo il contenuto della “sacchina” e ne uscirono fuori “cicoria, cardedda, du pedi di carduna” e qualche chilo di rosse “radici” che gli aveva fatto dissotterrare un suo conoscente contadino.
Moglie e marito osservavano quei vegetali che erano soliti abbondare nella mensa dei bisognosi e tristemente pensavano ai loro figli che si sarebbero aspettato qualche “cadduzzu di sozizza…”
Nel tempo più triste della guerra si era pensato di allevare delle galline ma non fu possibile perché  “u catuju” era troppo piccolo e per fare entrare la sera in casa “a caggia” doveva uscire un letto…
Tristemente la consorte rievocava:
 - Mia madre diceva: “Jè Carnivali, poviri e ricchi fanu maccarruna…”
Di rimando non meno sconsolato il marito:
 - E mio nonno aggiungeva: “e ì ca mancu pani àiu m’addubbaiu ccu na cozza di carduni…”
Intanto fissava i rosseggianti ravanelli sul tavolo e gli sovvenne il detto: "Pani e radici socchi si mangia nun si dici"
- Per forza, - chiosava tra sé e sé Michele,-  c’è veramente da vergognarsene a parlarne, specialmente quando non si ha nemmeno il pane…
Per sfogare il nervosismo ricominciò a rovistare nella vecchia credenza che si rivelava sempre più taccagna, quando mise le mani su in bicchiere incrinato nel cui fondo stava una massa grigiastra con grani di sale in superficie; affondò due dita e tirò fuori un filo lungo informe: era il budello rimasto dall’ultima salsiccia consumata a Natale…
Sbattè con gesto stizzoso lo sportello e tornò a sedersi appoggiando i gomiti sul tavolo e affondando le mani tra i capelli.
Ad un tratto scattò in piedi, andò a prendere un grosso coltello e si mise a triturare sul tavolo i ravanelli: il bianco della polpa si intrecciava col rosso della buccia esterna, creando un effetto cromatico particolare…
 La moglie, sbalordita e preoccupata dello stato mentale di Michele, tentò di  fermarlo: - Che fai? Rovini il poco che abbiamo?...
Secco sbottò Michele: “Tu fatti a quazetta!... E muta!”
Circa un’ora dopo chiamò  Lidduzzu che ancora giocava in strada, gli consegnò un involto e disse: - Portalo alla zia Annetta e torna subito, senza fermarti lì.
Annetta curiosa, appena il nipote si fu dileguato, aprì il fagottino e restò di ghiaccio; poi: - Gesù! Gesù!... "Lu poviru nunn’avviva e limusina faciva…!?"
Il marito che rientrava in quel momento trovò la moglie ancora inebetita davanti a una corda di salsiccia divisa “a caddozza” con fili di raffia.
Il consorte al comune stupore aggiunse la personale mortificazione patita: era uno scorno per lui capomastro in piena attività ricevere un tal dono da un disoccupato che non aveva pane nemmeno per i figli! Semmai doveva essere lui ad aiutare il cognato che si trovava in stato di reale bisogno.
Per qualche minuto moglie e marito si guardarono intontiti e senza parole.
Ruppe il silenzio Annetta: - Di certo non possiamo ricambiare con altra salsiccia perché ne hanno tanta… Che si fa?
Il giorno dopo zia Annetta chiamò Lidduzzu e gli consegnò una sporta con dentro un involto di carta oleata con due chili abbondanti di “custiciddi di crastagniddu”, un capiente fiasco di vino e un pacchetto. Indicando quest’ultimo, la zia raccomandò al nipote:
 - Ccu chisti vuatri carusi vi faciti a vucca duci.
Le due famiglie poterono festeggiare decorosamente il carnevale.
L’originale quanto disperata trovata suscitò una lunga risata liberatoria in ambedue le case.
Essa ancora oggi echeggia fra noi, soprattutto perché tocca gli animi in profondità: cambiano i tempi, ma la tristezza della miseria non s’eclissa mai.


Titolo: Re: ANTICHI CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: falcopennato - 19 Gennaio 2010, 11:23:55
Buongiorno bella davvero , solo per questa festa nei casi di comune miseria le storie possono avere un lieto fine, i tempi cambiano i personaggi non sono gli stessi, ma si è detto e si dirà sempre "cambiano i suonatori ma la musica rimane la stessa". Arrivederci a presto


Titolo: Re: ANTICHI CASI DI COMUNE MISERIA
Inserito da: falcopennato - 24 Gennaio 2010, 18:07:46
Buonasera.Per l'imminente arrivo del Carnevale volevo scrivere qualcosa di vissuto, ma visto che noi siamo la storia ripensandoci un pochino se scriverò del presente credo che lasceremo qualcosa nella storia di chi verrà dopo per questo ho rifletuto un pò ho contato fino a dieci e poi mi sono deciso di scrivere una letterina a mister Carnevale:
Ogni anno puntuale arrivi tu mister Carnevale
Nel mio paese per favore non farti sentire
perchè chissà dove andremo a finire
qui non sei più il benvenuto
 te lo dice chi il Carnevale lo hann vissuto
 tra sfilate ,carri , pupazzi e schiamazzi
era bello per davvero e di verlo vissuto ne sono fiero
Tutto questo non c'è più e siamo rimasti con il naso in giù
Ti hanno dato il ben servito
questo paese è triste e sconsolato
ormai tutti ti hann scordato. Arrivederci a presto