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Ultimo utente: niki
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 11 
 inserita:: 21 Maggio 2012, 17:44:05 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da Vinz
Meraviglioso! E' proprio vero, saper raccontare è un'arte... Grande!

 12 
 inserita:: 26 Marzo 2012, 22:15:11 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
O DA PORTA O DO PURTIDDU…

Qualche giorno fa sono andato al Presidio Sanitario per la prenotazione d’una visita specialistica; Salvatore Maisano mostrava qualche difficoltà a trovare una data libera, quando lo sentii mormorare fra sé: - O da porta o do purtiddu…
M’aspettavo il seguito del detto e lo invitai a continuare, ma mi rispose che intendeva dire solamente che si sarebbe trovata una soluzione in un modo o nell’altro.
Mi fece gran meraviglia che un’espressione quasi centenaria sopravvivesse ancora fra i giovani, anche se incompleta.
Da gran tempo è stata mia intenzione portare a conoscenza dei cittadini il motto in questione, ma mi appariva quasi superfluo dal momento che lo consideravo già decaduto.
Salvatore m’ha fatto ricredere e la circostanza oggi m’induce a trattarne.
Spesso quand’ero ragazzo nei casi in cui ci si aspettava una risoluzione a un pur piccolo problema sentivo ripetere con una punta d’ironia : - O da porta o do purtiddu a vo nnesciri u furmintiddu.
Non capivo il nesso fra la situazione e il detto e quindi chiesi delucidazione, come di solito, a mio padre.
L’espressione era nata a seguito di un fatto di cronaca accaduto una ventina d’anni prima, che per l’indigenza dei tempi di guerra fece molto scalpore.
Don Peppino Profeta, sindaco di Villarosa prima e dopo il Fascismo,  in società col fratello don Filippo, erano i più grossi commercianti di frumento del paese.
Gli agricoltori, trattenuta a casa la mangia che era la quantità di grano che potevano consumare in famiglia fino al nuovo raccolto, al momento in cui il prezzo del grano era ritenuto adeguato, lo portavano a vendere dai Profeta.
L’annata in cui avvenne il fatto fu favorevole agli agricoltori tanto che il grano a stento  poté essere contenuto nei depositi; così veniva creato un grande quadrato formato dai due lati d’un angolo del locale e da altri due serrati con sacchi zeppi di grano; dentro si formava un gran cumolo,  a timugna, che aumentava man mano che arrivava nuovo frumento. Quando poi il mucchio aumentava di volume, per non farlo debordare, si aggiungevano altri sacchi colmi sui due lati aperti.
Era uno spettacolo vedere quel ben di Dio, esposto alla vista di quanti passando vi gettavano ingorde occhiate.
I primi a volerci mettere le mani ovviamente erano gli uomini di fatica che non riuscivano a sfamare come dovuto i figli col misero salario che percepivano. Vari cittadini stuzzicavano in vari modi quei poveretti che stavano vicini al grano: potevano toccarlo, desiderarlo, ma non potevano portarsene a casa nemmeno qualche pugnetto, per fare a cuccì ppi Santa Lucì.
Fra questi vi era Cola A., molto noto in paese perché sempre in giro a faticare e vivente ancora ai tempi della mia prima giovinezza. Questi, forse perché già pizzicato  per furto, era il maggior tormentato dai paesani che lo provocavano; a costoro egli rispondeva con una certa stizza:
 - Àiu l’ucchi chini e i manu vacanti.
I fratelli Profeta erano ben consci di quei naturali desideri ma non potevano far nulla di più: quel grano l’avevano pagato al prezzo giusto. Così erano attivi nel tenere le chiavi di particolare sicurezza alla cinta e a non lasciarle in mano ai dipendenti di maggior fiducia nemmeno per un attimo.
A timugna s’alzava sempre più ed era arrivata a qualche metro da una finestrella, purtiddu, munita da una solida grata in ferro. Questa circostanza tranquillizzava i due fratelli, all'oscuro della circostanza che qualcuno con gli occhi prendeva le misure all’intreccio delle sbarre di ferro.
Una mattina si sparse la voce che Cola A. era stato arrestato durante la notte.
Scassà un paisi. Tutti volevano sapere cosa era successo di preciso; le notizie era scarse e contraddittorie. Se in un crocchio qualcuno faceva una ipotesi, essa passava all’altro più prossimo come una certezza che però aveva ben poca durata. Verso mezzogiorno si poté ricostruire nei particolari l’accaduto.
A Cola dopo una lunga giornata di fatica a scaricare, portare o bìlicu i sacchi di frumento, caricarli ad uno ad uno sulla schiena e, salendo su per l’asse ripida di legno, andare a svuotarli in cima a la timugna, gli toccava di fare in proprio un lavoro straordinario nel pieno della notte.
Egli aveva calcolato che attraverso il vuoto quadrato tra la sbarre do purtiddu poteva far passare u cuppinu da pasta: quindi lo legò per il manico ad una canna e fu pronto per la paziente missione notturna che durò per circa una settimana.
Per sua fortuna accanto al magazzino sorgeva una stalla i cui alloggiati non avrebbero parlato né protestato per via degli inevitabili rumorini che si potevano produrre.
Di certo non furono i Profeta a notare il vuoto creato da qualche tumolo di grano sottratto dall’enorme ammasso, ma senz’altro un cittadino che soffriva d’insonnia avrà fatto una soffiata ai legittimi proprietari del frumento.
Fu enorme il clamore, sproporzionato al danno arrecato: i commenti per alcuni giorni furono innumerevoli e fra i tanti quello d’un paesano, rimasto ignoto, che con naturalezza e spontanea rima, messosi nei panni di Cola nell’organizzare il colpo, pronunciò il detto che passò di bocca in bocca e rimase famoso e vivo per circa cento anni ancora:
 - O da porta o do purtiddu a vo nnesciri u furmintiddu.


Vedi anche in:  http://bellarrosa.blogspot.it/search/label/Detti%20villarosani%20tipici

 13 
 inserita:: 16 Marzo 2012, 09:49:59 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
                                                           DUE PRETI INDEGNI DEL XIX SECOLO

Spesso mi chiedo quanti saranno stati nel tempo i fatti scabrosi, relativi a persone che contano o che fanno parte di congreghe, maliziosamente coperti da quella polvere sottile che la falsa Storia lascia depositare silenziosamente.

Per fortuna spesso questa cinerea coltre si rivela  neve che si scioglie pur tardivamente al sole della verità.

Da poco sono venuto a conoscenza di opere di due poeti villarosani dell’ ‘800 che inspiegabilmente sono rimasti ignoti persino ai nostri vecchi: Salvatore Scavone e Giuseppe Albo. Ambedue ottimi verseggiatori in lingua italiana: il primo si dichiara allievo del secondo a cui dedica con immensa devozione una sua opera. Del secondo spero di poter parlare in altro momento.

Il volumetto “POESIE” di Salvatore Scavone è del 1872, edito in Caltanissetta dallo Stabilimento Tipografico dell’Ospizio di Beneficenza. In esso sono contenuti fra l'altro due sonetti che riguardano la moralità di innominati preti suoi contemporanei. Molte poesie della stessa silloge sono riprese nella sua opera successiva “PRIMI FIORI”, ma dei due sonetti che seguono non si trova più traccia in quest’ultima. 

Ritengo opportuno citarli in questa sede per completare il discorso iniziato su questo delicato argomento che a suo tempo avrà fatto senz'altro tanto male alla pubblica moralità e soprattutto alla Chiesa.

E’ il caso di far notare ai soliti bacchettoni, che nel momento in cui essi puntano il dito sulla rilassatezza dei costumi della società in genere, ignorano i peccatori della loro Chiesa. Essi si ergono a giudici severi perchè si autoproclamano esclusivi possessori della Verità, puntano il dito sui comuni peccatori e nello stesso tempo coprono le malefatte dei loro congregati.

Spesso la Chiesa, mostrandosi caritatevole e dispensatrice di perdono, nasconde la cruda verità dei fatti che riguardano suoi fedeli, dimenticando di tradire le chiare parole di Gesù: “E' necessario che gli scandali avvengano”.

Quello che non dovrebbe esistere è il peccato, ma una volta che esso c'è dovrà essere messo in luce per far riflettere i membri della società tutta, dei credenti e dei non credenti.

A 140 anni dei fatti narrati nulla è cambiato nell'orientamento morale della Chiesa che nel caso dei preti pedofili, del caso Claps o degli scandali finanziari una chiara risposta non l'ha mai data e la tradizionale coltre di silenzio incancrenisce sempre più la società, Chiesa compresa



Da “POESIE” di Salvatore Scavone pg.7
LA MORTE DI UNO SFRENATO PRETE

Fra sozze tresche amò la vita, or l’empio,

stanco per gli anni, in lagrimevol suono,

ei, che fece di tutto un crudo scempio,

osa all’Eterno dimandar perdono.



Profanò del Signor l’altare, il tempio,

fe’ tremare, imprecando, il divin trono.

O delusi credenti, ecco l’esempio

di chi disse di Dio, Ministro io sono!



Spregiuro ai sacri voti, ebro germano

di Giuda, il qual con un sol bacio almeno,

ed ei con mille a Cristo il seno aprìo.



Sangue innocente imporporò sua mano,

vergin sedusse e ne corruppe il seno…

Ed or sì tardi vuol placare Iddio!



         Questa descrizione si attaglia bene al “parrinu bagasciu”,.di cui si  è parlato

         



Da “POESIE” di Salvatore Scavone pg.8
UNA STAFFILATA AL PRETE

Mostra all’aspetto d’aver buono il cuore,

fugge la vanità, giammai s’adira,

di Bimbo sembra aver l’almo candore,

a venerarlo l’apparenza ispira.



Soffre disprezzi, angustie, ogni dolore

per amore di Gesù, per cui delira,

e notte e dì con eccessivo ardore

il devoto fedel piange e sospira…



Oh, ipocrisia di sì malvagia prole,

in volto ha la virtù, mortal veleno

nascosto in core e nell’infida mente.



Molti egli inganna con dolci parole,

di vergin casta e pia corrompe il seno…

Povero Cristo e sciagurata gente!

[/size]

Questo esempio di viscida ipocrisia si adatta a perfezione alla figura del padre naturale d’un serio professionista villarosano, di cui da ragazzo sentivo parlare, e che, già prima ch’io nascessi aveva trasferito la sua attività in una città vicina, dove io studente lo conobbi, molto vecchio, nel 1950.

I vecchi della mia infanzia, pur stimandolo, dicevano serenamente, che, nato in una poverissima famiglia, non avrebbe potuto laurearsi ed impiantare la sua costosa attività se non grazie all’aiuto materiale del padre naturale, un prete.

La data di nascita dello stimato concittadino coincide con la pubblicazione dell'operetta originale dello Scavone.

 14 
 inserita:: 17 Febbraio 2012, 21:39:35 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da cigliazza
Il mio bisnonno raccontava che il nome del monte deriva da quello di "Re Spica", sovrano del popolo che abitava la montagna. Le numerose tombe presenti tutt'oggi sul monticello,dove  i defunti venivano rannicchiati, testimoniano la presenza di una civiltà adesso scomparsa.

 15 
 inserita:: 16 Febbraio 2012, 21:49:11 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
Respìca (o Rèspica, cioè guarda intorno)

Respìca, monte a tramontana di Villarosa, così nominato dagli antichi abitanti della zona ed ancora dagli attuali. Di tale denominazione però non c’è traccia in documenti ufficiali, nelle carte è indicato invece come monte Giulfo, alto 761 m. s.l.m. 
Una strana piccola altura con due nomi diversi: il versante che guarda pressappoco a sud, in faccia a Villarosa, viene chiamato Respìca, quello opposto della stessa, Giulfo, è nominato popolarmente Giurfu.
Tantissimi villarosani e priolesi nel tempo si sono scervellati invano nel cercare nelle storie e nelle tradizioni locali un re di nome Spica,  o almeno un personaggio importante da cui la montagna che domina i loro paesi avrebbe preso la denominazione.
La planimetria di Villarosa sembra essere stata tracciata apposta per consentire ai futuri abitanti di ammirare la maestosità di tale sommità dirimpettaia, tutt’altro che eccelsa, ma più imponente di oggi perchè a quei tempi i ginisara di Verona (1) non esistevano, non essendo  ancora esplosa la corsa allo zolfo.
Io da ragazzo vedevo lo stesso sfondo che si ammira ancor oggi, ma i conoidi di rosticci allora erano di color rosa più vivo e non erano solcati dalle erosioni delle acque piovane che si riversano nella valle sottostante. Da bambino io vivevo in un mondo in cui lo zolfo era protagonista in ogni attività, discorso o disputa. Mio padre alle domande che ponevo su quei materiali di enorme quantità depositati a vista dei villarosani, mi rispondeva con precisi particolari su come s’erano formati, ma non mancava di concludere che essi in sostanza erano impastati col sudore e il sangue di quanti avevano trascorso l’intera esistenza cominciando da “carusi”, dai sei anni in su fino alla vecchiaia, se si aveva la fortuna di arrivarci vivi.
Molte volte più tardi mi sono chiesto come doveva apparire il fianco nativo del monte liberato dai milioni di tonnellate di terra bruciata depauperata del biondo elemento. Di tutt’altra natura invece il versante nord di Giulfo-Respìca, che è una delizia  per il fresco d’estate, le sorgenti d’acqua limpida e l’abbondanza di frutta d’ogni varietà.
L’abbondanza dei pregi del luogo non poteva essere trascurata dagli abitatori dei millenni passati, tanto è vero che quel versante è pieno di testimonianze di antiche civiltà, che se pur depredate hanno lasciato segni indelebili.
Il versante villarosano non presenta presenze di antichi resti, ma non possiamo escludere che, sotto lo strapiombo della dominante altura, antiche vestigia siano state coperte dai rosticci di miniera; tanto è probabile in quanto a poche centinaia di metri a girare nell’arenaria del monte sono stati scoperti avelli sepolcrali perfettamente intagliati a squadra e già depredati dei contenuti funerari.
Tutt’altra cosa la vicina zona di nord-est, che ha restituito resti e frammenti di antichi manufatti. Di essa spero di riprendere il discorso in altro momento.
Intanto non voglio allontanarmi dal misterioso nome di Respìca che non trovo in nessun contesto, tranne uno.
Respica è un piccolissima montagna rispetto ad Enna o l’Altesina, ma con una caratteristica dovuta alla sua cima pianeggiante dove si può passeggiare e da ogni angolo di essa si possono ammirare panorami a 360°. Tanto non avviene agevolmente su una più alta sommità accidentata e più vasta.
Quella che segue è una mia ipotesi non dimostrabile, ma penso degna di qualche considerazione. In ogni caso voglio soltanto aprire un discorso e sarò felice se altre tesi più convincenti ne scaturiranno.
Leggendo qua e là di storia romana, ho rincontrato un antico motto in latino che veniva sussurrato all’orecchio del condottiero che tornava in Roma vincitore e a cui la Patria dedicava un sontuoso trionfo: l’eroe, incoronato d’alloro e preceduto dai regnanti sconfitti in catene, avanzava per i Fori fra ali di folla esultante. Nel colmo della sua gloria sul carro, alle sue spalle, veniva posto uno schiavo che aveva l’incarico di sussurrargli di tanto in tanto: “Réspica te, hominem te memento”, cioè “Guardati intorno, ricorda che sei un uomo”
Nel caso nostro non c’entra propriamente il motto di storia romana citato, ma dobbiamo tener conto che i Romani furono padroni della Sicilia per lunghissimi secoli e non mi sembra peregrina l’ipotesi di mettere in rilievo la peculiarità della cima che offre l’opportunità di poter dominare l’intero panorama solamente guardandosi intorno. Ad esempio la costruzione che campeggia ancora oggi su Respica avrebbe potuta essere un tempo una splendida villa romana, il cui proprietario sarebbe stato orgoglioso del fatto che con un colpo d’occhio poteva abbracciare il verde del Giulfo, la citta ad est, forse Pizarolo, la Rocca Danzese con lo spuntone di roccia che ricorda un grande dente, le colline fitte di boschi compresa a sud la sede della futura nostra cittadina, prima che la scure li avrebbe devastati per far posto a campi di grano.
Il nome della mia ipotesi avrebbe cambiato nel tempo solamente un accento e mantenuta la grafia, ma questa stessa si è persa sulle carte, dove invece è stato tramandato il nome Giulfo.
Quale altro conquistatore ce l’avrà imposto? (2)
   
___________________________

(1)   Da ragazzo mi chiedevo da dove saltava fuori il nome della città veneta, ma nessuno, compresi i più anziani,  mi sapeva rispondere. Leggendo qua e là notizie sulle miniere ho scoperto che Verona era il cognome di una famiglia palermitana, titolare di un complesso industriale relativo all’ estrazione del giallo elemento.
(2)   Sempre sull’onda dei nomi trasformati, abbiamo nelle vicinanze un esempio più recente: “a rrobba da Gàrcia” (e anche il detto, “a liggi da Gàrcia”); tale nome potrebbe derivare da proprietari spagnoli (per tanti secoli pure essi dominatori in Sicilia) il cui cognome si dovrebbe leggere “Garsìa” e non “Gàrcia”.

 16 
 inserita:: 09 Febbraio 2012, 17:33:47 
Aperta da il maestro - Ultimo messaggio da jack_sparrow
Si potrebbe coinvolgere la nuova associazione Pro Loco fondata a Villarosa da giovani volenterosi!!!

 17 
 inserita:: 18 Gennaio 2012, 23:20:22 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
Ipotesi su come una stratella possa diventare un ampio e luminoso corso
Un nostro lettore che si firma Huge, leggendo il mio post “Una lenta incruenta vendetta” che così inizia “La nostra via Milano, la più lunga dopo  il Corso Garibaldi, si estende “da muramma”, oggi via Cossa, fino “a stratella”, il corso Regina Margherita…” , mi chiede: “ Ma c'è qualche motivo particolare per cui Corso Regina Margherita veniva detto a stratella???”. Sulla “muramma” non c’è tanto mistero perché la via Cossa nasceva dal Corso Garibaldi lato sud con a destra una casetta singola abitata da un sola famiglia; appresso a  questa modesta costruzione iniziava un muro a secco che tratteneva i terreni a salire fino alla “vanidduzza” ; di sera la zona, complice il buio, era frequentata da quanti non avevano servizi igienici in casa.
Tutte le persone nate e cresciute nel quartiere del corso Regina Margherita e non solo, compresi i ragazzi, continuavamo a chiamarlo “stratella”. Io non ero per nulla convinto che una via così larga non poteva indicarsi con un nome così ristrettivo, ma alla mia osservazione nessuno seppe mai dare una soddisfacente risposta.
Quando il vecchio nome di già era caduto in disuso tra le nuove generazioni, compresa la mia, scattò in me la reminiscenza di una vecchia ipotesi scaturita da un dettaglio non trascurabile che avevo sentito formulare da un anziano che a sua volta da ragazzo ne aveva avuta notizia da persone di più avanzata età: gli ingressi principali del Palazzo Ducale e della Chiesa Madre erano in antico sistemati allo stesso livello, uniti da un unico monticello senza l’infossamento attuale del corso Regina Margherita.
Avevo lasciato tale ricordo nel cantuccio del mio cervello perché non mi convinceva in quel contesto una concepibile sistemazione della vicina piazza e dell’orologio civico. Un giorno casualmente sentii citare il comune detto che “Roma non fu costruita in un solo giorno” e subito pensai alla pittrice Rosa Ciotti che nella seconda metà del ‘700 aveva tracciato la lineare topografia del nostro paese, che rimase per quasi due secoli modello scrupolosamente rispettato. Era relativamente facile rappresentare una futura cittadina sulla carta, ma c’era da fare i conti con la realtà materiale del suolo in tempi in cui erano impensabili ruspe a motore e mezzi meccanici oggi d’uso comune.
Cercando d’immaginare scenari del passato cominciai col notare che sul frontale tutto della chiesa e poi sulla fiancata maggiore, è ben visibile una larga reseca che va a perdersi gradualmente quasi fin dove arriva la costruzione sacra. Considerando poi la conformazione della porta secondaria (a porta fausa) sul corso notiamo degli scalini a scendere all’interno di essa e altrettanti all’esterno. Da tanto si desume che nei tempi iniziali della chiesa appena costruita l’uscita secondaria doveva essere a livello della strada. Nel fronte opposto ebbi in tempi passati possibilità di appurare che i pianterreni oggi esistenti sotto il Palazzo Ducale sono dei seminterrati senza sbocco nella retrostante parallela via Genco: la conclusione mi è sembrata ovvia, reseca e pianterreni erano un tutt’uno, coperti da un monticello che partiva più o meno dall’altezza dell’odierna Banca San Paolo e univa gli accessi alle due antiche e prestigiose costruzioni, la civile e la religiosa.
La planimetria della futura Villarosa, ispirata al neoclassicismo settecentesco, fu rispettata con scrupolosità e ogni nuova costruzione seguiva quel piano regolatore originario senza le furberie dei tempi successivi.
Ora volgiamo lo sguardo più in alto, oltre la linea delle odierne via Milano e via Genco. Esse appaiano in leggera pendenza verso est, ma se saliamo sempre più su notiamo che a mano destra le vie che si riversano nel corso vanno diventando sempre più ripide fino alla scalinata di via Giordano e il bastione che affianca il Monumento ai Caduti in guerra, sorto sui ruderi d’una vecchia chiesetta dedicata a San Giuseppe, che dava il nome a tutto il quartiere .
Dal lato sinistro del corso invece notiamo uno scoscendimento delle vie verso est e nello stesso tempo un rialzamento della sede stradale ottenuto con un’opera muraria eccellente che ci ha consegnato il meraviglioso corso che oggi ammiriamo. A tale proposito è il caso di elogiare gli antichi costruttori del muro ad est che sostiene il piano stradale, costruito per i carretti e si mantiene ancora solido al passaggio di furgoni ed autotreni.
S’è detto che anche Villarosa non è nata nel breve tempo in cui fu ideata, quindi immaginiamo la zona tutta con la collina che scende dal Cozzo che veniva edificata casa dopo casa nel corso di più d’un secolo, sempre seguendo le linee indicate dalla Ciotti. Come poteva apparire ai nostri antenati quel territorio? Il versante d’una collina fangosa d’inverno ed arida d’estate. Su di essa i carretti che trasportavano il pietrame per le case in costruzione, le zampe degli animali da soma e i piedi dei cittadini ne avevano tracciato col continuo uso un viottolone, a stratella, così nominata ancora fino alla mia infanzia.
Questa è la mia ipotesi elaborata su scarsi frammenti di memoria antica.
Ringrazio Huge per l’occasione offertami e invito tutti gli amatori del proprio paese a collaborare suggerendo ricordi destinati a disperdersi  nel nostro blog tutto villarosano  www.bellarrosa.blogspot.com .

 18 
 inserita:: 18 Gennaio 2012, 23:13:55 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
Ipotesi su come una stratella possa diventare un ampio e luminoso corso
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Un nostro lettore che si firma Huge, leggendo il mio post “Una lenta incruenta vendetta” che così inizia “La nostra via Milano, la più lunga dopo  il Corso Garibaldi, si estende “da muramma”, oggi via Cossa, fino “a stratella”, il corso Regina Margherita…” , mi chiede: “ Ma c'è qualche motivo particolare per cui Corso Regina Margherita veniva detto a stratella???”. Sulla “muramma” non c’è tanto mistero perché la via Cossa nasceva dal Corso Garibaldi lato sud con a destra una casetta singola abitata da un sola famiglia; appresso a  questa modesta costruzione iniziava un muro a secco che tratteneva i terreni a salire fino alla “vanidduzza” ; di sera la zona, complice il buio, era frequentata da quanti non avevano servizi igienici in casa.
Tutte le persone nate e cresciute nel quartiere del corso Regina Margherita e non solo, compresi i ragazzi, continuavamo a chiamarlo “stratella”. Io non ero per nulla convinto che una via così larga non poteva indicarsi con un nome così ristrettivo, ma alla mia osservazione nessuno seppe mai dare una soddisfacente risposta.
Quando il vecchio nome di già era caduto in disuso tra le nuove generazioni, compresa la mia, scattò in me la reminiscenza di una vecchia ipotesi scaturita da un dettaglio non trascurabile che avevo sentito formulare da un anziano che a sua volta da ragazzo ne aveva avuta notizia da persone di più avanzata età: gli ingressi principali del Palazzo Ducale e della Chiesa Madre erano in antico sistemati allo stesso livello, uniti da un unico monticello senza l’infossamento attuale del corso Regina Margherita.
Avevo lasciato tale ricordo nel cantuccio del mio cervello perché non mi convinceva in quel contesto una concepibile sistemazione della vicina piazza e dell’orologio civico. Un giorno casualmente sentii citare il comune detto che “Roma non fu costruita in un solo giorno” e subito pensai alla pittrice Rosa Ciotti che nella seconda metà del ‘700 aveva tracciato la lineare topografia del nostro paese, che rimase per quasi due secoli modello scrupolosamente rispettato. Era relativamente facile rappresentare una futura cittadina sulla carta, ma c’era da fare i conti con la realtà materiale del suolo in tempi in cui erano impensabili ruspe a motore e mezzi meccanici oggi d’uso comune.
Cercando d’immaginare scenari del passato cominciai col notare che sul frontale tutto della chiesa e poi sulla fiancata maggiore, è ben visibile una larga reseca che va a perdersi gradualmente quasi fin dove arriva la costruzione sacra. Considerando poi la conformazione della porta secondaria (a porta fausa) sul corso notiamo degli scalini a scendere all’interno di essa e altrettanti all’esterno. Da tanto si desume che nei tempi iniziali della chiesa appena costruita l’uscita secondaria doveva essere a livello della strada. Nel fronte opposto ebbi in tempi passati possibilità di appurare che i pianterreni oggi esistenti sotto il Palazzo Ducale sono dei seminterrati senza sbocco nella retrostante parallela via Genco: la conclusione mi è sembrata ovvia, reseca e pianterreni erano un tutt’uno, coperti da un monticello che partiva più o meno dall’altezza dell’odierna Banca San Paolo e univa gli accessi alle due antiche e prestigiose costruzioni, la civile e la religiosa.
La planimetria della futura Villarosa, ispirata al neoclassicismo settecentesco, fu rispettata con scrupolosità e ogni nuova costruzione seguiva quel piano regolatore originario senza le furberie dei tempi successivi.
Ora volgiamo lo sguardo più in alto, oltre la linea delle odierne via Milano e via Genco. Esse appaiano in leggera pendenza verso est, ma se saliamo sempre più su notiamo che a mano destra le vie che si riversano nel corso vanno diventando sempre più ripide fino alla scalinata di via Giordano e il bastione che affianca il Monumento ai Caduti in guerra, sorto sui ruderi d’una vecchia chiesetta dedicata a San Giuseppe, che dava il nome a tutto il quartiere .
Dal lato sinistro del corso invece notiamo uno scoscendimento delle vie verso est e nello stesso tempo un rialzamento della sede stradale ottenuto con un’opera muraria eccellente che ci ha consegnato il meraviglioso corso che oggi ammiriamo. A tale proposito è il caso di elogiare gli antichi costruttori del muro ad est che sostiene il piano stradale, costruito per i carretti e si mantiene ancora solido al passaggio di furgoni ed autotreni.
S’è detto che anche Villarosa non è nata nel breve tempo in cui fu ideata, quindi immaginiamo la zona tutta con la collina che scende dal Cozzo che veniva edificata casa dopo casa nel corso di più d’un secolo, sempre seguendo le linee indicate dalla Ciotti. Come poteva apparire ai nostri antenati quel territorio? Il versante d’una collina fangosa d’inverno ed arida d’estate. Su di essa i carretti che trasportavano il pietrame per le case in costruzione, le zampe degli animali da soma e i piedi dei cittadini ne avevano tracciato col continuo uso un viottolone, a stratella, così nominata ancora fino alla mia infanzia.
Questa è la mia ipotesi elaborata su scarsi frammenti di memoria antica.
Ringrazio Huge per l’occasione offertami e invito tutti gli amatori del proprio paese a collaborare suggerendo ricordi destinati a disperdersi  nel nostro blog tutto villarosano  www.bellarrosa.blogspot.com .[/size][/font]

 19 
 inserita:: 17 Novembre 2011, 21:27:56 
Aperta da il maestro - Ultimo messaggio da osvaldo
Caro PTranquillo sono d'accordo con te e la mia "migrazione" al blog www.bellarrosa.blogspot.com è stata il tentativo di riassumere i post. Il blog non è mio ma di tutti, solo che non vedo partecipazione partecipazione fra quanti vi entrano con qualche nota. Da parte mia pubblicherò nei villarosani.it la nuova produzione pubblicata sul blog. Spero che tante persone capaci si lancino, anche con nickname anonimi, a scrivere, a fare ricerche presso anziani che mai si avvicineranno alla rete ma che conoscono tante altre storie che ionon conosco. Tutto questo materiale è destinato a disperdersi e tanto mi duole assai.Ad es. ieri un lettore del blog di Bellarrosa mi ha informato che suo nonno venuto meno 10 anni fa gli diceva che i nobili e galantuomini dell' 800 portavano un berretto "cco giummu". Per me tanto è una novità intorno alla quale spero che qualcuno  possa dare precisazioni....
A me il copia-incolla di facebook non garbizza... E' un modo di prendersi in giro in famiglia: ognuno pensa che egli sia originale e gli altri tale lo giudicano, per nulla pensando che il copia-incolla è lo strumento di quasi tutti.
Salve

 20 
 inserita:: 17 Novembre 2011, 21:20:06 
Aperta da il maestro - Ultimo messaggio da osvaldo
Cancellato perchè ripetuto per errore

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Comune di Villarosa (Provincia di Enna - EN) -C.A.P. 94010- dista 101 Km. da Agrigento, 29 Km. da Caltanissetta, 117 Km. da Catania, 20 Km. da Enna, alla cui provincia appartiene, 213 Km. da Messina, 141 Km. da Palermo, 165 Km. da Ragusa, 192 Km. da Siracusa, 240 Km. da Trapani. Il comune conta 6.162 abitanti e ha una superficie di 5.501 ettari. Sorge in una zona collinare, posta a 523 metri sopra il livello del mare. L 'attuale borgo nacque nel 1762 ad opera del nobile Placido Notarbartolo. Fu sempre centro economico molto attivo, in particolare nel XIX secolo quando vennero rese funzionanti numerose miniere zolfifere presenti su tutto il territorio. Nel settore dei monumenti è importante ricordare la Chiesa Madre del 1763 dedicata a S. Giacomo Maggiore. Rilevanti sono pure Il Palazzo S. Anna, il Palazzo Ducale e l'ex Convento dei Cappuccini entrambi del XVIII secolo.