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Villarosa
La storia
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Rommel
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Le nostre tradizioni
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Discussione: Le nostre tradizioni (Letto 55208 volte)
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #30 inserita::
16 Gennaio 2010, 22:21:45 »
IO CONOSCO ANCHE CUMMARI DI MAZZETTU. SO SOLO CHE CI SI SCAMBIAVA UN FIORE, I PARTICOLARI NON LI CONOSCO PURTROPPO....
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osvaldo
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #31 inserita::
31 Marzo 2010, 21:36:34 »
E' Pasqua!
Ovunque uova di cioccolato d’ogni dimensione e colore. Scintillio di stagnole, nastri argentati…
La mia mente mi riporta all’infanzia e alla prima giovinezza quando imperava l’uovo di Pasqua, quello vero, prodotto dalle galline.
L’uovo della Pasqua villarosana prima si bolliva per farlo rassodare ben bene, poi veniva immerso in una pasta in genere dolce, arricchita di confettini finissimi quasi come semi di papavero di svariati colori,
i diavulicchi
. Poi andava infornato. Il tuorlo dell’uovo cotto ancora una volta, liberato dall'albume rappreso, assumeva all’esterno un colore verde chiaro.
Era
u canniliri
, la gioia dei bimbi. Ma non di tutti, purtroppo; la maggioranza poteva solamente sognarlo.
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Ultima modifica: 02 Aprile 2010, 22:28:26 da osvaldo
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #32 inserita::
19 Aprile 2010, 19:09:50 »
Ancora sulla Pasqua
Confesso che anche se credente non frequento spesso riti religiosi e processioni varie. Tanti ne seguii nella mia infanzia e nella mia giovinezza. “U ‘ncuntru”, la processione del pomeriggio di Pasqua, mi affascinava tanto per via di quel manto nero che cadeva di dosso alla Madonna alla vista di Cristo Risorto. Ero curioso e volevo esplorare il “mistero”. Era don Sariddu, il sacrestano della Madrice, che con la sua tunica bianca e rossa seguiva il fercolo , “a vara”, della Madre di Gesù addobbata a lutto; al momento giusto, quando alla vista della statua dell Madonna appariva quella di Gesù risorto, tirava una delle due estremità del nodo a fiocco cadeva giù il drappo nero e , d’incanto, la Madonna Addolorata si trasformava in raggiante Immacolata Concezione.
Di certo la processione del Venerdì Santo in assoluto è la più sentita perché era e resta la più genuina: in essa il protagonista è Gesù, che ha scelto di morire in Croce per dare un alto esempio all’umanità.
Poco prima di Pasqua ho parlato “do canniliri”, un dolce prettamente dell’occasione. Ora mi voglio soffermare su una tradizione viva fin quando si faceva coincidere La Resurrezione con il mezzogiorno del Sabato Santo.
A quell’ora massaie e ragazzi si preparavano per accogliere il Cristo Risorto. Le prime, al tocco delle campane, che erano rimaste “attaccate” e quindi avevano taciuto per due giorni e mezzo, afferravano il bastone della scopa e colpivano sotto i mobili e i letti della casa gridando a ripetizione: “Nnisci diavulu ca trasi Gesù” fino a quando si stancavano. I ragazzi raccoglievano da terra pietre e le scagliavano sulle porte chiuse, gridando con giubilo ed anche con un po’ d’accanimento, tanto le pietre per le vie allora abbondavano a iosa. [Mi domando oggi: perchè il Comune non provvedeva a far rimuovere quelle pietre che tanti danni gravi e spesso irreparabili procurò a tante persone, senza contare le cose?]
Era la festa della gioia che continuava il giorno dopo, ma soprattutto la mattina più attesa era quella di Pasquetta, che allora era chiamata “Pascuni”. Gli amici più affezionati si preparavano per quel giorno che li legava “cumpari”, di dijuni o di Pascuni, per tutta la vita.
La formula che si recitava era la seguente:
“Compari e san Giuguanni
socchi avimu ni spartimu:
avimu pane e ossa e ninn’ jamu ‘nni la fossa;
avimu pane e rrisu e ninn’jamu ‘m paradisu”
Anch’io ho un compare di dijuni, di quasi settant’anni fa e ci chiamiamo ancora “cumpà”.
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Ultima modifica: 22 Settembre 2010, 21:55:32 da osvaldo
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #33 inserita::
21 Settembre 2010, 23:51:33 »
CENNI SUL MONDO SOCIALE ANTERIORE AGLI ANNI ‘50 [In stessa data pubblicato su
www.bellarrosa.blogspot.com
]
I segni più vistosi d'una certa distinzione sociale ai tempi della mia infanzia e prima giovinezza erano i copricapo, "cuppuli e cappedda", che però non erano obbligati come una divisa.
Decenni prima era stato comune un copricapo di panno dalla forma cilindrica coperto in alto e senza fondo in basso per consentirgli di adagiarsi sulla testa, era “a scuzzitta”. [Il berretto di Giuseppe Garibaldi era molto simile a questa, anche se di origine non siciliana] Il colore della stoffa era scuro ma poco identificabile perché quei pochi che sono riuscito da ragazzo a vedere sul capo di qualche vecchietto erano molto unti per la scarsa igiene praticata in quel tempo. Oggi per sciccheria la porta qualche uomo di cultura legato alle tradizioni della nostra terra. Ricordo che alla celebrazione del Centenario della nascita di Vincenzo De Simone fu invitato il poeta Ignazio Buttitta, grande estimatore ed amico del Nostro. L’ospite si presentò al Cinema Italia dove si svolse la celebrazione con una “scuzzitta” di colore blu tradizionale con dei ricami in filo dorato[Vedi la foto della Celebrazione nella Galleria di questo sito]. Qualche anno più tardi rividi un simile copricapo rosso e fregiato dei soliti ricami dorati indossato da un antiquario di Taormina, amante della cultura e amico di personalità del gotha internazionale e, per citare la più ragguardevole per arte e notorietà, dell’attrice Greta Garbo.
Fino a un decennio dopo la fine dell’ultima guerra, era impensabile che un operaio o un contadino, sia pur benestante, portasse il cappello. Di festa invece qualche artigiano l’indossava.
A tal proposito ho un ricordo indelebile. Era il 1946: prime elezioni amministrative. A Villarosa erano in lizza due liste: quella della Democrazia Cristiana e quella civica con emblema “il Leone” capeggiata da un ex sindaco del periodo prefascista, don Peppino Profeta, a cui s'erano unite le sinistre.
Mio padre fu indotto a candidarsi, non chiese il voto a nessuno, non tanto per superbia ma per il principio della libertà del voto: fu eletto ugualmente e con molti suffragi. Io dodicenne seguivo le manifestazioni democratiche che per me, e non solo, erano assolute novità.
Vinse la lista popolare e subito a scrutinio completato spontaneamente si formò un immenso e composto corteo che fece il giro del paese lungo il tragitto delle processioni.
Mi colpì la frase di un signore che rivolgendosi a mio padre disse: - Nun cc'è mancu un cappiddu!
Io curioso salii su degli scalini d’una casa della via Milano e appurai l'affermazione appena sentita.
Altra distinzione sociale, a parte certe professioni particolari, dottore, professore o avvocato, era il modo di nominare le persone: Don e Donna, Mastru e Gnura. Artigiani, commercianti, impiegati e rispettive mogli erano chiamati col Don e Donna, il resto della popolazione con mastru e gnura.
C'era pure una zona intermedia fra il Don e il Mastro, che si risolveva con “zzi”, appellativi confidenziali che non presupponevano l'esistenza di parentela: zzi Pe', zzi Turì, zzi Marì, zzi Minichì....
Sconfinare da queste regole comportava biasimo ed ironia.
Ricordo che c'era una donna che proclamava, in italiano: - Io sono la signora Alessi...
Ma la si compativa come persona un po' stramba...
Fino agli anni '60 i contadini, anche i più facoltosi, d'inverno usavano “ a scappulara”, scapolare, una specie di mantello di stoffa pesante di color blu con cappuccio. Gli altri che si volevano distinguere dal popolo minuto usavano “u palittò”, il cappotto. I più poveri s'arrangiavano come potevano...
In tempi più antichi, professionisti e galantuomini, portavano un elegante mantello con borchia dorata a chiusura alla base del collo, u firriulu.
Come si evince c'era una scala sociale variegata che ciascuno rispettava per timore d'essere preso in giro, ma non c'era un obbligo legale: era solamente una convenzione tacitamente rispettata.
In fondo era il reddito che creava il discrimine. In ogni categoria c'era anche una scala di valori a seconda delle capacità professionali o dal modo di proporsi al prossimo.
I vari mondi sociali erano poco permeabili, ma si poteva passare dall'uno all'altro nel corso delle generazioni. Importante era la considerazione morale della famiglia, ma il reddito e il potere erano più attraenti, come oggi del resto.
Della scala agricola l'ultimo era, ed è ancora, “u jurnataru”; di quella zolfifera “ u panuttaru”, quello che impastava le polveri inerti miste a scagliette di zolfo che asciugate venivano infornate per trarne un minimo di zolfo liquido. I “panutti” sbriciolati concorrevano a formare “u ginisi”, lo scarto inerte che rimane dalla combustione e liquefazione dello zolfo; esso era un ottimo materiale idrorepellente molto adatto per costruire stradelle.
A proposito “do ginisi” sono ancora visibili sullo sfondo del corso Regina Margherita verso nord dei grandissimi coni di deiezione di color rosa formati da tali rosticci. Oggi hanno perso il color vivo che ancora tengo negli occhi della mente e sono solcati dall’erosione delle piogge nei numerosi decenni.
Sempre a proposito del suolo villarosano tutta la zona ai piedi del monte Respica, a destra dell’ “Ariazza”, appare come un paesaggio lunare, cumuli irregolari e buche sempre di color rosa per via dei rosticci, essi sono “i ginisara” di Verona: così comunemente è chiamata la zona. Da ragazzo mi chiedevo che cosa c’entrasse la città veneta col nostro paese, ma nessuno mi sapeva dare una risposta. Col tempo ho scoperto che Verona era il cognome d’una facoltosa famiglia palermitana di industriali dello zolfo e padroni di miniere nella zona.
Mi compiaccio di citare questi particolari che se non fissati nella forma scritta sono condannati ad inesorabile dimenticanza, come ad esempio l’origine del nome Respica.
Da ragazzino quando a qualcuno si chiedeva che scuola avesse frequentato, questi con un risatella rispondeva: - U quartu ginisaru di Verona!
Io confondevo la parola “ginisaru” con ginnasio, ma i conti non quadravano perché l’interpellato non corrispondeva ai canoni dello studente.
Teoricamente la scuola era aperta a tutti, nella sostanza ad una striminzita minoranza. Un solo esempio potrà dare un'idea approssimativa. Nella mia prima classe, anno scolastico 1940-41, gli iscritti eravamo 56 [ho la fotocopia del registro]. Non tutti però i nati del 1934 [si tenga presente che allora al nostro Comune mancavano poche decine di abitanti per arrivare ai 12.000] varcarono quel primo ottobre il portone del novello palazzo scolastico Silvio Pellico”, almeno altrettanti erano per le strade del paese o in campagna. Dei miei 56 compagni originari, quelli che arrivammo in quinta si potevano contare si e no sulle dita d'una mano, gli altri dieci erano i reduci dalle altre prime e poi s’era aggiunto qualche ripetente. Restavano inesorabilmente fuori della scuola i poveri che non possedevano un paio di scarpe.
Fra le gallerie di foto del sito villarosani.it ce n'è una di gruppo dove la metà dei ritratti seduti a terra mostrano con assoluta naturalezza i piedi nudi. La foto mi pare degli anni '50, lascio immaginare quanti piedi scalzi nei decenni precedenti.
Non si finirebbe mai di raccontare aspetti di un tempo che si spera che non torni mai più: voglio lasciare spazio a qualche concittadino di aggiungere particolari nuovi o correggere i miei
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Ultima modifica: 22 Settembre 2010, 21:42:13 da osvaldo
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #34 inserita::
22 Settembre 2010, 15:09:24 »
vado un pò fuori dal contesto del prezioso intervento di Osvaldo ma a proposito di "U quartu ginisaru di Verona!" mi è ritornato in mente un film di Daniele Lucchetti del 1995: LA SCUOLA.
Un film molto ironico sul tema.
Il professore Mortillaro, di cui potete godere una performance al link precedente, riteneva che alcuni nascono solo per ZAPPARE
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Ultima modifica: 22 Settembre 2010, 15:20:34 da jack_sparrow
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #35 inserita::
22 Settembre 2010, 22:22:26 »
Citazione di: jack_sparrow - 22 Settembre 2010, 15:09:24
vado un pò fuori dal contesto del prezioso intervento di Osvaldo ma a proposito di "U quartu ginisaru di Verona!" mi è ritornato in mente un film di Daniele Lucchetti del 1995: LA SCUOLA.
Un film molto ironico sul tema.
Il professore Mortillaro, di cui potete godere una performance al link precedente, riteneva che alcuni nascono solo per ZAPPARE
S
empre a proposito della scuola per poveri. Molti anni fa leggevo che in un convegno sulla scuola tenutosi a Caltagirone dopo l'unità d'Italia, un cittadino, ovviamente della ricca e "colta" borghesia, sostenne la tesi che dare al popolo tutto la possibilità d'imparare a scrivere sarebbe significato dare il mezzo ai maschi di scrivere lettere anonime e alle ragazze lettere d'amore.
E per finire, non sempre al negativo, propongo copia del manifesto della Comunità di Castrogiovanni, oggi Enna.
E' soltanto un primo passo avanti in anticipo al signore di Caltagirone, ma nel 1940, quando in I^ elementare ci fui io gli iscritti eravamo 56 solo nella mia classe. E oggi?
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Ultima modifica: 23 Settembre 2010, 21:59:01 da osvaldo
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #36 inserita::
23 Settembre 2010, 11:17:25 »
E oggi non si ha più quella sensibilità necessaria a percepire il valore dell'istruzione.
Si va a scuola per ammazzare il tempo.
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Re: Le nostre tradizioni - I luoghi di Vjllarosa
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Risposta #37 inserita::
23 Giugno 2011, 19:45:31 »
U PONTI CARAMANNA
Fino a qualche decennio fa era indicato con tale nome un comunissimo ponte con rispettivo parapetto che convogliava le acque della via Capponi nella via Mastro Silvestre e di qui al vallone di Santo Rocco. Quando questa via fu raccordata al livello di corso Garibaldi non ci fu più motivo di mantenere la parte in muratura. Laddove le acque svoltavano a destra seguendo il loro naturale pendio, a sinistra aveva inizio l'irta trazzera detta della figuredda. All’edicola sacra ancora esistente nei pressi dell’odierno campo sportivo seguiva una seconda figuredda in cima alla salita e a sinistra sulla strada provinciale per Villapriolo, e non solo, ma per Alimena (Armena) e le Petralie tutta la zona delle Madonie e a nord-est, Cacchiamo (Guacchiamu), Villadoro (Passariddu), Nicosia (Nicusì)...
Queste due figurelle, oggi pressoché ignorate, non erano casuali, erano il riferimento votivo della religiosità di lavoratori minerari e agricoli che vi transitavano. Nella nostra epoca dell’automobile la vecchia trazzera oggi è diventata carrozzabile ma rimane poco frequentata. In antico era un'arteria molto trafficata specialmente in due cruciali momenti della giornata, alba e tramonto, esclusa la domenica e le feste comandate. Al primo albore del giorno e ancor prima che sorgesse il sole vi s'arrampicava una massa umana di capumastri, pirriatura, armatura, arditura, scarcaraturi, panuttara, seguiti da una frotta di carusi, mal coperti, malnutriti, scavusi e 'nchiagati di rusuli; tutti insieme si avviavano alle numerosissime miniere di zolfo che sorgevano intorno a Respica-Giurfo, con predominanza nella zona est della montagna. Poco più tardi erano i viddrani, in numero inferiore, che salivano per l’erta fangosa o polverosa a seconda della stagione per raggiungere Pampiniddru, l’Ariazza, u Vigliu, u Giurfu...
Se un tempo San Calogero era il limite estremo dell’abitato, il ponte Caramanna aveva pure una certa rilevanza in paese perché ne segnava la periferia per quanto riguarda il lato nord, infatti a parte qualche casa sul corso, alle spalle c’erano campi coltivati.
Non ho conosciuto Caramanna, né ho avuta notizia da parte di anziani che ne abbiano avuto un solo ricordo. Era usanza nei tempi passati che si dessero nomi alla strade a seconda del borghese o politico più ragguardevole che vi abitasse. Per fare un solo esempio che potrebbe sembrare improprio, la via Milano non è dedicata al capoluogo lombardo ma ad una famiglia di cui ho conosciuto un solo rappresentante, don Ciccio. Un altro rappresentante dei Milano fu più volte sindaco di Villarosa.
Voglio rappresentare un piccolo evento di cui sono stato involontario testimone una ventina d’anni fa. Tornavo da scuola a piedi, come è mio costume da sempre, era l’ora di pranzo e i marciapiedi del corso Garibaldi erano quasi deserti; avevo appena superato la traversa di via Mastro Silvestre, quando si accostò al marciapiedi un’auto; il giovane che era alla guida mi apostrofò molto gentilmente e mi chiese dove si trovasse il ponte Caramanna. Risposi che lo avevano attraversato da pochi metri. Precisai che qualche decennio prima era stato eliminato il parapetto che lo rendeva visibile. Accanto al guidatore era seduta un’anziana signora che mi sorrise e mi disse: - Caramanna era mio nonno.
Ringraziarono, salutarono e l’auto, targata Ragusa, proseguì la marcia in direzione Palermo.
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Re: Le nostre tradizioni - I luoghi di Vjllarosa
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Risposta #38 inserita::
24 Giugno 2011, 11:15:37 »
Citazione di: osvaldo - 23 Giugno 2011, 19:45:31
... Laddove le acque svoltavano a destra seguendo il loro naturale pendio, a sinistra aveva inizio l'irta trazzera detta della figuredda...
Scusa Osvaldo, ma le acque svoltavano a destra rispetto a Corso Garibaldi?
E quindi "a sinistra aveva inizio l'irta trazzera" sarebbe la strada che porta al campo sportivo !!!
Non sono sicurissimo di aver compreso la mappa :-)
Bellissimo l'aneddoto della nipote di Caramanna che cercava il ponte intitolato a suo nonno !!!
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Re: Le nostre tradizioni - I luoghi di Vjllarosa
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Risposta #39 inserita::
24 Giugno 2011, 18:27:52 »
Citazione di: jack_sparrow - 24 Giugno 2011, 11:15:37
Scusa Osvaldo, ma le acque svoltavano a destra rispetto a Corso Garibaldi?
E quindi "a sinistra aveva inizio l'irta trazzera" sarebbe la strada che porta al campo sportivo !!!
Non sono sicurissimo di aver compreso la mappa :-)
Bellissimo l'aneddoto della nipote di Caramanna che cercava il ponte intitolato a suo nonno !!!
Se mi chiedi nello specifico il punto esatto io stesso sarei in imbarazzo, ma è intuibile lo sbocco naturale per via della pendenza che convoglia le acque piovane, e non solo, nel vallone che dell' "Acquaduci" [darrì a brivatura] porta al depuratore e infine al lago artificiale della diga. Esatta la tua idea della vecchia trazzera, oggi carrabile che porta al campo sportivo e alla strada provinciale verso nord.Appena ho tempo aggiungerò una nota di curiosità storica a proposito di l'acquaduci, sul nostro blog
www.bellarrosa.blogspot.com
dove le lo notizie del nostro paese dovrebbero essere più ordinate. Sarei pure grato se lasciaste qualche traccia di nota...
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Ultima modifica: 24 Giugno 2011, 18:36:09 da osvaldo
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #40 inserita::
29 Giugno 2011, 08:57:01 »
Gentile Signor Osvaldo,
mi scuso in anticipo perchè probabilmente mi sono perso dei pezzi e la cosa che sto per chiederle è già stata pubblicata in questo forum nell'apposita area. Rischio quindi di apparire come utente che esce fuori dal seminato.
Lei, ha mai raccontato sue esperienze legate alla frequentazione del vecchio cinema di Villarosa???
Che aria si respirava, quali film proiettavano, chi fossero allora i gestori, perche poi è stato chiuso.
Non ho trovato articoli nemmeno sul suo BLOG Bellarossa, ma probabilmente la mia scarsa intuizione sulle logiche di navigazione non mi aiuta.
Le sarei grato se potesse illustrarci scenari relativi al CINEITALIA.
Jack una volta era moderatore delle discussioni ambientate sul Cinema, forse anche lui qualcosa potrebbe raccontarla.
La ringrazio.
Cetto la qualunque
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Ultima modifica: 29 Giugno 2011, 09:01:53 da Cetto la qualunque
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Re: Le nostre tradizioni - Il dialetto che non c'è più
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Risposta #41 inserita::
07 Luglio 2011, 18:12:34 »
LINGUAGGIO INFANTILE d’altri tempi non proprio lontani
llollò – fari a l. Addormentarsi
bbubbù – farisi a b.[oggi bua] Farsi male
ciccì – a c. La carne
cicì – u c. Un pulcino o un uccelletto in genere
coccò - u c. L‘uovo, in genere da consumare alla coque
ddriddrì– Jìri a d. Uscire di casa per andare a passeggio
fuffù – a f. La pasta
liscidda – a l. Il vestitino nuovo
mmemmè u m. La capra: un tempo molto comune
musciddu u m. Il gattino
nannà – u/a n. Il nonno e la nonna
ninnedda, minnedda o ninnè la mammella materna
nninnì – i n. I soldini
pepè – u p. Le scarpe
popò – u p. L’automobile
scescè – u s. L’asino
tetè – i t. Le botte nel culetto
ttettè u t. Il cane
vavà - u/a v. Un bimbo o una bimba
vovò – fari a v. Andare a dormire
vuvù – a v. L’atto del bere
zizzì – u/a z. Lo zio e la zia
Ce ne saranno di altre che non ricordo; gradirei che si facesse una ricerca a più mani per completarla e tramandarla più completa. Grazie
Collaboriamo tutti a
www.bellarrosa.blogspot.com
che ha come scopo tenere vive le nostre tradizioni a rischio.
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #42 inserita::
18 Gennaio 2012, 23:20:22 »
Ipotesi su come una stratella possa diventare un ampio e luminoso corso
Un nostro lettore che si firma Huge, leggendo il mio post “Una lenta incruenta vendetta” che così inizia “La nostra via Milano, la più lunga dopo il Corso Garibaldi, si estende “da muramma”, oggi via Cossa, fino “a stratella”, il corso Regina Margherita…” , mi chiede: “ Ma c'è qualche motivo particolare per cui Corso Regina Margherita veniva detto a stratella???”. Sulla “muramma” non c’è tanto mistero perché la via Cossa nasceva dal Corso Garibaldi lato sud con a destra una casetta singola abitata da un sola famiglia; appresso a questa modesta costruzione iniziava un muro a secco che tratteneva i terreni a salire fino alla “vanidduzza” ; di sera la zona, complice il buio, era frequentata da quanti non avevano servizi igienici in casa.
Tutte le persone nate e cresciute nel quartiere del corso Regina Margherita e non solo, compresi i ragazzi, continuavamo a chiamarlo “stratella”. Io non ero per nulla convinto che una via così larga non poteva indicarsi con un nome così ristrettivo, ma alla mia osservazione nessuno seppe mai dare una soddisfacente risposta.
Quando il vecchio nome di già era caduto in disuso tra le nuove generazioni, compresa la mia, scattò in me la reminiscenza di una vecchia ipotesi scaturita da un dettaglio non trascurabile che avevo sentito formulare da un anziano che a sua volta da ragazzo ne aveva avuta notizia da persone di più avanzata età: gli ingressi principali del Palazzo Ducale e della Chiesa Madre erano in antico sistemati allo stesso livello, uniti da un unico monticello senza l’infossamento attuale del corso Regina Margherita.
Avevo lasciato tale ricordo nel cantuccio del mio cervello perché non mi convinceva in quel contesto una concepibile sistemazione della vicina piazza e dell’orologio civico. Un giorno casualmente sentii citare il comune detto che “Roma non fu costruita in un solo giorno” e subito pensai alla pittrice Rosa Ciotti che nella seconda metà del ‘700 aveva tracciato la lineare topografia del nostro paese, che rimase per quasi due secoli modello scrupolosamente rispettato. Era relativamente facile rappresentare una futura cittadina sulla carta, ma c’era da fare i conti con la realtà materiale del suolo in tempi in cui erano impensabili ruspe a motore e mezzi meccanici oggi d’uso comune.
Cercando d’immaginare scenari del passato cominciai col notare che sul frontale tutto della chiesa e poi sulla fiancata maggiore, è ben visibile una larga reseca che va a perdersi gradualmente quasi fin dove arriva la costruzione sacra. Considerando poi la conformazione della porta secondaria (a porta fausa) sul corso notiamo degli scalini a scendere all’interno di essa e altrettanti all’esterno. Da tanto si desume che nei tempi iniziali della chiesa appena costruita l’uscita secondaria doveva essere a livello della strada. Nel fronte opposto ebbi in tempi passati possibilità di appurare che i pianterreni oggi esistenti sotto il Palazzo Ducale sono dei seminterrati senza sbocco nella retrostante parallela via Genco: la conclusione mi è sembrata ovvia, reseca e pianterreni erano un tutt’uno, coperti da un monticello che partiva più o meno dall’altezza dell’odierna Banca San Paolo e univa gli accessi alle due antiche e prestigiose costruzioni, la civile e la religiosa.
La planimetria della futura Villarosa, ispirata al neoclassicismo settecentesco, fu rispettata con scrupolosità e ogni nuova costruzione seguiva quel piano regolatore originario senza le furberie dei tempi successivi.
Ora volgiamo lo sguardo più in alto, oltre la linea delle odierne via Milano e via Genco. Esse appaiano in leggera pendenza verso est, ma se saliamo sempre più su notiamo che a mano destra le vie che si riversano nel corso vanno diventando sempre più ripide fino alla scalinata di via Giordano e il bastione che affianca il Monumento ai Caduti in guerra, sorto sui ruderi d’una vecchia chiesetta dedicata a San Giuseppe, che dava il nome a tutto il quartiere .
Dal lato sinistro del corso invece notiamo uno scoscendimento delle vie verso est e nello stesso tempo un rialzamento della sede stradale ottenuto con un’opera muraria eccellente che ci ha consegnato il meraviglioso corso che oggi ammiriamo. A tale proposito è il caso di elogiare gli antichi costruttori del muro ad est che sostiene il piano stradale, costruito per i carretti e si mantiene ancora solido al passaggio di furgoni ed autotreni.
S’è detto che anche Villarosa non è nata nel breve tempo in cui fu ideata, quindi immaginiamo la zona tutta con la collina che scende dal Cozzo che veniva edificata casa dopo casa nel corso di più d’un secolo, sempre seguendo le linee indicate dalla Ciotti. Come poteva apparire ai nostri antenati quel territorio? Il versante d’una collina fangosa d’inverno ed arida d’estate. Su di essa i carretti che trasportavano il pietrame per le case in costruzione, le zampe degli animali da soma e i piedi dei cittadini ne avevano tracciato col continuo uso un viottolone, a stratella, così nominata ancora fino alla mia infanzia.
Questa è la mia ipotesi elaborata su scarsi frammenti di memoria antica.
Ringrazio Huge per l’occasione offertami e invito tutti gli amatori del proprio paese a collaborare suggerendo ricordi destinati a disperdersi nel nostro blog tutto villarosano
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #43 inserita::
16 Febbraio 2012, 21:49:11 »
Respìca (o Rèspica, cioè guarda intorno)
Respìca, monte a tramontana di Villarosa, così nominato dagli antichi abitanti della zona ed ancora dagli attuali. Di tale denominazione però non c’è traccia in documenti ufficiali, nelle carte è indicato invece come monte Giulfo, alto 761 m. s.l.m.
Una strana piccola altura con due nomi diversi: il versante che guarda pressappoco a sud, in faccia a Villarosa, viene chiamato Respìca, quello opposto della stessa, Giulfo, è nominato popolarmente Giurfu.
Tantissimi villarosani e priolesi nel tempo si sono scervellati invano nel cercare nelle storie e nelle tradizioni locali un re di nome Spica, o almeno un personaggio importante da cui la montagna che domina i loro paesi avrebbe preso la denominazione.
La planimetria di Villarosa sembra essere stata tracciata apposta per consentire ai futuri abitanti di ammirare la maestosità di tale sommità dirimpettaia, tutt’altro che eccelsa, ma più imponente di oggi perchè a quei tempi i ginisara di Verona (1) non esistevano, non essendo ancora esplosa la corsa allo zolfo.
Io da ragazzo vedevo lo stesso sfondo che si ammira ancor oggi, ma i conoidi di rosticci allora erano di color rosa più vivo e non erano solcati dalle erosioni delle acque piovane che si riversano nella valle sottostante. Da bambino io vivevo in un mondo in cui lo zolfo era protagonista in ogni attività, discorso o disputa. Mio padre alle domande che ponevo su quei materiali di enorme quantità depositati a vista dei villarosani, mi rispondeva con precisi particolari su come s’erano formati, ma non mancava di concludere che essi in sostanza erano impastati col sudore e il sangue di quanti avevano trascorso l’intera esistenza cominciando da “carusi”, dai sei anni in su fino alla vecchiaia, se si aveva la fortuna di arrivarci vivi.
Molte volte più tardi mi sono chiesto come doveva apparire il fianco nativo del monte liberato dai milioni di tonnellate di terra bruciata depauperata del biondo elemento. Di tutt’altra natura invece il versante nord di Giulfo-Respìca, che è una delizia per il fresco d’estate, le sorgenti d’acqua limpida e l’abbondanza di frutta d’ogni varietà.
L’abbondanza dei pregi del luogo non poteva essere trascurata dagli abitatori dei millenni passati, tanto è vero che quel versante è pieno di testimonianze di antiche civiltà, che se pur depredate hanno lasciato segni indelebili.
Il versante villarosano non presenta presenze di antichi resti, ma non possiamo escludere che, sotto lo strapiombo della dominante altura, antiche vestigia siano state coperte dai rosticci di miniera; tanto è probabile in quanto a poche centinaia di metri a girare nell’arenaria del monte sono stati scoperti avelli sepolcrali perfettamente intagliati a squadra e già depredati dei contenuti funerari.
Tutt’altra cosa la vicina zona di nord-est, che ha restituito resti e frammenti di antichi manufatti. Di essa spero di riprendere il discorso in altro momento.
Intanto non voglio allontanarmi dal misterioso nome di Respìca che non trovo in nessun contesto, tranne uno.
Respica è un piccolissima montagna rispetto ad Enna o l’Altesina, ma con una caratteristica dovuta alla sua cima pianeggiante dove si può passeggiare e da ogni angolo di essa si possono ammirare panorami a 360°. Tanto non avviene agevolmente su una più alta sommità accidentata e più vasta.
Quella che segue è una mia ipotesi non dimostrabile, ma penso degna di qualche considerazione. In ogni caso voglio soltanto aprire un discorso e sarò felice se altre tesi più convincenti ne scaturiranno.
Leggendo qua e là di storia romana, ho rincontrato un antico motto in latino che veniva sussurrato all’orecchio del condottiero che tornava in Roma vincitore e a cui la Patria dedicava un sontuoso trionfo: l’eroe, incoronato d’alloro e preceduto dai regnanti sconfitti in catene, avanzava per i Fori fra ali di folla esultante. Nel colmo della sua gloria sul carro, alle sue spalle, veniva posto uno schiavo che aveva l’incarico di sussurrargli di tanto in tanto: “Réspica te, hominem te memento”, cioè “Guardati intorno, ricorda che sei un uomo”
Nel caso nostro non c’entra propriamente il motto di storia romana citato, ma dobbiamo tener conto che i Romani furono padroni della Sicilia per lunghissimi secoli e non mi sembra peregrina l’ipotesi di mettere in rilievo la peculiarità della cima che offre l’opportunità di poter dominare l’intero panorama solamente guardandosi intorno. Ad esempio la costruzione che campeggia ancora oggi su Respica avrebbe potuta essere un tempo una splendida villa romana, il cui proprietario sarebbe stato orgoglioso del fatto che con un colpo d’occhio poteva abbracciare il verde del Giulfo, la citta ad est, forse Pizarolo, la Rocca Danzese con lo spuntone di roccia che ricorda un grande dente, le colline fitte di boschi compresa a sud la sede della futura nostra cittadina, prima che la scure li avrebbe devastati per far posto a campi di grano.
Il nome della mia ipotesi avrebbe cambiato nel tempo solamente un accento e mantenuta la grafia, ma questa stessa si è persa sulle carte, dove invece è stato tramandato il nome Giulfo.
Quale altro conquistatore ce l’avrà imposto? (2)
___________________________
(1) Da ragazzo mi chiedevo da dove saltava fuori il nome della città veneta, ma nessuno, compresi i più anziani, mi sapeva rispondere. Leggendo qua e là notizie sulle miniere ho scoperto che Verona era il cognome di una famiglia palermitana, titolare di un complesso industriale relativo all’ estrazione del giallo elemento.
(2) Sempre sull’onda dei nomi trasformati, abbiamo nelle vicinanze un esempio più recente: “a rrobba da Gàrcia” (e anche il detto, “a liggi da Gàrcia”); tale nome potrebbe derivare da proprietari spagnoli (per tanti secoli pure essi dominatori in Sicilia) il cui cognome si dovrebbe leggere “Garsìa” e non “Gàrcia”.
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Re: Le nostre tradizioni
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Risposta #44 inserita::
17 Febbraio 2012, 21:39:35 »
Il mio bisnonno raccontava che il nome del monte deriva da quello di "Re Spica", sovrano del popolo che abitava la montagna. Le numerose tombe presenti tutt'oggi sul monticello,dove i defunti venivano rannicchiati, testimoniano la presenza di una civiltà adesso scomparsa.
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