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I drammi dell'emigrazione Da: osvaldo Inserito il: 10 January 2008, 00:17:05
                                                               “STANNO TUTTI BENE”

Donna Turidda Zuffante, nostra dirimpettaia, l’ho conosciuta sempre da vecchia: asciutta, severa in viso  e intenta a sfaccendare di continuo; faceva maggiormente piacere vederla con la zappa in mano nell’atto di curare personalmente il giardino annesso alla sua casa. 
Mia nonna, più giovane di lei, la osservava compiaciuta e spesso  pronosticava che l’arzilla vicina avrebbe raggiunto e superato senz’altro la bella età dei cent’anni.
Donna Turidda sopravvisse alla nonna e in effetti arrivò a 105 anni.
Quando le festeggiarono il secolo di vita, al giornalista che la intervistò disse d’essere in definitiva soddisfatta della sua lunga esistenza, solo lamentava, tanto per citare un piccolo ed anche trascurabile disappunto, che l’Amministrazione ferroviaria non le inviava più, già d’alcuni anni, i biglietti gratuiti che le spettavano di diritto quale vedova di ex ferroviere.
Aveva ben ragione la centenaria di non dolersi delle vicende del suo mondo familiare perché da qualche decennio le veniva risparmiata la condivisione degli  inevitabili dispiaceri e dei drammi che possono accadere in genere in tutte le famiglie.
Ho intitolato questa pagina saccheggiando il titolo d’un film sul dramma dell’emigrazione, interpretato dall’ultimo Marcello Mastroianni.
L’unica figlia femmina di donna Turidda, Giuseppina, col marito Santo Russo e tutti i loro figli, negli anni cinquanta emigrò in Australia.
Quel distacco, come ogni altro che conducesse a terre molto lontane, fu assai duro per la vecchietta e la provò tanto perchè ella sentiva che si stava dividendo per sempre, mmivinzia, con tutte quelle persone care.
La corrispondenza epistolare per madre e figlia rimaneva l’unico conforto e tormento ad un tempo; ma quella era la dura legge dell’emigrazione, perché unni cc’è u bunu stari cc’è u bunu campari.
Ogni madre preferirebbe morire al posto della propria creatura, purtroppo quando l’inesorabile Parca incombe su di questa, la crudele non accetta baratto alcuno.
La signora Giuseppina lasciò questa vita troppo presto, lasciando prostrati dal dolore i familiari; con un problema in più: come comunicare il ferale evento alla nonna prossima ai cento anni?
A seguito del ritardo di notizie arrivò da Villarosa una lettera disperata dalla vecchietta che chiedeva notizie precise e implorava la figlia a non nasconderle nulla.
L’imbarazzo era immenso; bisognava trovare una soluzione, a costo di ricorrere ad una pietosa invenzione.
La vecchietta ricevette dopo qualche giorno una lettera, che cominciava:
“Cara mamma, mi deve scusare del ritardo involontario di notizie, perché abbiamo passato un brutto momento, ma quando le cose si contano  è sempre, ringraziando Dio, una fortuna.
Vossia avrà capito che la calligrafia non è la mia, è quella di Imperia che, figlia mia, si assumerà d’ora in  poi  quest’ impegno.
M’è successo un brutto incidente con la macchina, Totò non s’è fatto niente e solamente io ho perduto il braccio destro, rimasto schiacciato sotto la vettura. Nella disgrazia però mi sento fortunata perché poteva andare peggio, così accetto con rassegnazione la volontà del Signore…”


Re: I drammi dell'emigrazione Da: Rommel Inserito il: 12 January 2008, 12:33:15
una storia pirandelliana da farci una novella

Re: I drammi dell'emigrazione Da: cigliazza Inserito il: 12 January 2008, 17:18:44
Bella storia veramente, racconti d'altri tempi.Se ne possono citare di tutti i generi...Un mio trisavolo andò in America a cercar fortuna, tornò in paese e , dopo aver messo su famiglia, tornò nel nuovo continente per non far più ritorno a casa. Dopo mesi la mia trisnonna seppe che aveva un'altra moglie ed un'altra famiglia laggiù...Sono riuscita a trovare qualcosa su di lui grazie ad un sito che ho trovato qui su villarosani.it.
Re: I drammi dell'emigrazione Da: Zio d America Inserito il: 19 January 2008, 16:05:25
Una gran bella storia, da novella come dice Rommel.

Grazie ancora ad Osvaldo per il contributo fornito.

Re: I drammi dell'emigrazione Da: proserpina Inserito il: 25 January 2008, 23:37:28
sono pienamente d'accordo con tutti voi.Questa storia ci mette davanti a delle realtà difficili da immaginare per noi che riusciamo a comunicare con estrema semplicità,seppur a grandi distanze!
Era davvero troppo difiicile abbandonare le proprie famiglie e non sapere quando sarebbe stato possibile rivederle.
complimenti ancora per la storia! Consolare
Re: I drammi dell'emigrazione Da: osvaldo Inserito il: 26 January 2008, 21:33:29
                                                    CU L'AVI L'AVI DISSI BLANNINU

Fin da bambino, ogni tanto sentivo una frase che mi sembrava lapalissiana e addiritura sciocca: Cu l’àvi l’àvi, dissi Blanninu.
Non osavo esprimere il mio sospetto perché percepivo che senz’altro mi sbagliavo io e non di certo le persone grandi che proferivano quella che a me appariva un’ovvietà.
Man mano che crescevo, continuavo a sentirla, ed io ci riflettevo sempre più per cercare di scoprirci il senso occulto che ancora mi sfuggiva.
Col tempo e la maturità cominciò a farsi strada in me l’idea che non si dovesse trattare del possesso di cose materiali, ma di entità imponderabili quali onestà, pudore, sensibilità, senso del dovere, fede alla parola data, ecc…, insomma le caratteristiche dell’uomo serio, molto raro in ogni tempo.
Blanninu quindi era un uomo saggio e voleva far capire che certe virtù non si improvvisano o possono indossarsi come un abito nuovo. Compresi così che l’ipocrisia dei falsi virtuosi, anche se rende nei rapporti sociali, finisce col durare poco e sempre fra i distratti o i superficiali: in poche parole, i santi uomini e le sante donne se non lo sono in profondo non lo diventeranno mai.
Mia madre usava molto spesso il detto di Blanninu. Un giorno le chiesi chi fosse questo Blanninu. Mi rispose che era un uomo saggio, che però ella non conobbe mai, perché era andato in America, prima che lei nascesse.
Ella di Blandino (così risultava allo Stato civile) non ne ricordava più il nome, ma sapeva che era stato un nostro lontano parente ed anche intimo amico e compare d’un suo prozio, Calogero Casale.
Blandino, a detta di zio Calogero, aveva messo su una bella numerosa famiglia.
I figlioli, divenuti adulti, nei tempi duri di fine ‘800, furono tra i primi a lasciare Villarosa per l’America. Come tanti altri volenterosi affrontarono l’ignota realtà, impararono la nuova lingua e presto fecero una discreta fortuna.
Anni dopo, quando il Blandino rimase vedovo, i figlioli tutti insistettero tanto perché il padre lasciasse il paesello per raggiungere le uniche persone care che gli rimanevano al mondo, anche se oltre Oceano.
Blandino lasciò il paese con la morte nel cuore; da persona sensibile ed intelligente presentiva quello che i giovani figli non potevano intuire.
Per amore obbedì al caro richiamo, confidando agli amici più cari la sua gioia e la sua angoscia.
Nelle prime lettere allo zio Calogero descriveva la meraviglia di quel mondo nuovo inimmaginabile per chi era nato e cresciuto nel cuore profondo della Sicilia ottocentesca.
Ma un uomo della sua età non poteva inserirsi in quel pianeta tanto vasto quanto vario; quello era un universo che egli sapeva di non potere né esplorare né affrontare, perché c’era il rischio di perdersi come un bimbetto fuori dal suo rione.
 Così si accontentava appena di vagare come un fantasma nelle vicinanze, dove si parlavano tante lingue tutte a lui ignote, dove si professavano tante religioni diverse dalla sua. Trovare un paisanu era una rara fortuna perché tutti erano impegnati a lavorare sodo:  solo la sera quando i figli tornavano a casa poteva sciogliere liberamente la lingua nella sua parlata natìa.
Troppo poco per un uomo che al suo paese era vissuto in un contesto di relazioni ben più vasto, dove egli era stimato per la serietà d’un’intera esistenza, rinvigorita poi dalla saggezza della vecchiaia.
    Non è dato sapere quanto tempo durò l’ultimo esilio di Blandino; Zio Calogero ne parlava sempre di persona scomparsa nella giungla urbana d’America e citava sempre il contenuto della lettera più significativa ricevuta da suo compare.
Questi facendo riferimento alla mancata conoscenza della lingua e quindi alla emarginazione di fatto, alla dipendenza dagli altri e all’ozio a cui amorosamente l’avevano obbligato, aveva scritto: “….dacchè ero padre sono diventato figlio….; vivo in una terra dove il fiore non ha odore, il pane non ha sapore e la donna non ha onore”.
Blandino, all’improvviso e senza gradualità, ad un’età in cui è difficile qualsiasi adattamento, aveva fatto un salto socio-culturale e morale con anticipo di quasi un secolo rispetto al paesello da dove proveniva.
La sua generazione, rimasta a Villarosa, cominciava appena a percepire, solo per sentito dire, che esisteva un mondo capovolto nei valori, quale quello sperimentato da Blandino, così continuava a vivere il proprio tempo, assimilando lentamente i minimi e graduali mutamenti della realtà sociale.
Decennio dopo decennio, guerra dopo guerra, anche il “nostro piccolo mondo antico” è andato cambiando e le nuove generazioni si sono adattate alle novità, con qualche ricordo nostalgico di tempi rimpianti perché ritenuti più belli.
La realtà d’allora era sì genuina, ma l’antica estrema miseria incombeva su gran parte della popolazione; oggi abbiamo raggiunto una certa prosperità, ma per essa abbiamo pagato un pesante scotto.
Col benessere abbiamo perso la nostra schietta identità e globalizzandoci ci siamo “americanizzati”, nel bene e nel male.


Re: I drammi dell'emigrazione Da: tarzan Inserito il: 26 January 2008, 21:47:33
Osvaldo complimenti come sempre per le tue perle di saggezza di cui ci fai generosamente dono.
Grazie davvero per la bella storia, per averci fatto rivivere per qualche seocondo i tempi passati e per averci dato un serio spunto di riflessione!!!

 Grande!  Grande!   Braaavo!  Forza Italia!
Re: I drammi dell'emigrazione Da: cigliazza Inserito il: 26 January 2008, 22:22:29
Grazie osvaldo per le belle storie che ci racconti. Sembrano le storie di parenti lontani che mi raccontava mia nonna da piccola  Consolare
Veramente un bella storia, grazie ancora  :-D
Re: I drammi dell'emigrazione Da: pazzotranquillo Inserito il: 26 January 2008, 22:46:05
Complimenti vivissimo osvaldo! Continua così. I tuoi racconti sono linfa vitale per il nostro sito... grazie mille!
Re: I drammi dell'emigrazione Da: shark Inserito il: 27 January 2008, 00:28:12
Grazie Osvaldo!
Re: I drammi dell'emigrazione Da: rosmauro Inserito il: 28 January 2008, 10:53:10
 Applauso Applauso Applauso Braaavo! Braaavo!
Re: I drammi dell'emigrazione Da: Rommel Inserito il: 28 January 2008, 22:39:09
questa emigrazione a fine 800 come mai?
legata al problema delle terre per caso?
Re: I drammi dell'emigrazione Da: Palermo Calcio Inserito il: 13 February 2008, 04:49:40
Grazie osvaldo!!!  Applauso
Re: I drammi dell'emigrazione Da: osvaldo Inserito il: 28 August 2008, 21:38:23
                                             STORIA DI MAFIA E D’EMIGRAZIONE

Don Turiddu Calabrese era un fine fabbro. Persona gentile, stimato da vicini e clienti, che non si sarebbe mai e poi mai sognato di sgarrare ai doveri della legalità e della buona creanza. Suo padre gli aveva insegnato di tenersi lontano da galantumini, ca cumu i muli, tiranu cauci quannu menu ti l’aspitti e di nun fari amicizia ccu sbirri, pirchì si cci perdi lu vinu e li sicarri.
S’era tenuto pure lontano dalla politica locale al fine di evitare di dover scendere agli inevitabili compromessi che essa comporta; poi anche perché un suo stretto parente s’era trovato in situazione spinosa, tant’è che era stato costretto, per pagare debiti non da lui contratti, ad emigrare in Argentina.
Egli abitava da gran tempo nella casa ch’era stata dei suoceri, defunti da gran tempo, ch’era toccata in eredità ad un cognato, il quale viveva di commercio a Catania e, da vero galantuomo qual  era, trovava sconveniente chiedere la pigione a sua sorella.
I coniugi Calabrese avevano messo in conto che prima o poi dovevano acquistare l’abitazione dal congiunto e per questo scopo da tempo tenevano una somma da parte per il momento tanto atteso.
La casa per i tempi in cui si svolsero i fatti, agl’inizi degli anni ’20 dello scorso secolo, si presentava ancora d’ ottima costruzione; poi, don Turiddu, in considerazione del fatto che non pagava affitto, non risparmiava nulla nella manutenzione e nell’abbellimento.
Questa sorgeva nella strada dei Santi e dominava una bella piazza del paese, e faceva gola a tanti benestanti locali, ma tutti erano consapevoli che don Turiddu non si sarebbe fatto sfuggire quell’acquisto, vitale per la sua famiglia.
Un giorno Rosa Spalletta in Calabrese ricevette una lettera dal fratello Jachino che la informava di essere intenzionato a vendere la sua proprietà e che era sua intenzione di passare la Pasqua in Villarosa tra i suoi.
Quando don Jachino, provenendo in carrozza dalla stazione, giunse o rivìlu, i facchini si precipitarono a prendere le sue valige di morbida pelle e saputa la destinazione di esse lo precedettero.
L’arrivo del concittadino che aveva fatto èbbica a Catania, sconvolse la quiete della parte di paese da dove passava: chi non lo conosceva ammirava il forestiero in bombetta e bastone col loden ripiegato sul braccio, quanti lo riconobbero andavano ad ossequiarlo. La notizia giunse in piazza e alla Società Umberto I di cui era ancora socio puntualissimo nei pagamenti delle mensilità anticipate. Tanti amici e altri solamente curiosi si precipitarono per piccole traverse per incrociare il tragitto che don Jachino doveva percorrere.
Giunse nella casa dei suoi cari circondato da un folto gruppo di cittadini e da vicini di casa che s’unirono ai primi.
Il mattino dopo don Jachino cominciò a fare qualche domanda ad amici sul mercato delle case in Villarosa.
La notizia si diffuse in paese e giunse agli orecchi di un miricanu da poco rientrato in paese, desideroso di fare la vita da signore con il bel gruzzolo guadagnatosi negli USA.
Questi consapevole delle mire del Calabrese, offrì allo Spalletta una somma più del doppio del valore di mercato della casa.
Don Jachino a tavola, tenendo bassi gli occhi sul piatto, confidò che aveva subito un tracollo economico e sperava, con la generosa offerta di quell’emigrante, di comprarsi a Catania almeno un tetto pur più modesto.
Rosa Spalletta si sentì venir meno per la disastrosa duplice notizia che colpiva l’amato fratello e la proprietà della casa della sua infanzia e di tutta la successiva esistenza.
Il gelo più disarmante avvolse quella casa; si parlavano a monosillabi e nessuno ardiva affrontare il discorso che ciascuno rripitiava nella propria testa sconvolta.
Don Jachino per svariare la mente confusa andava a far finta di leggere il giornale all’ Umberto I; don Turiddu furibondo lanciava improperi e maledizioni verso ddu piducchiu rivinutu di miricanu, partito morto di fame e che ora era capace di comprarsi mezzo paese…
Un mattino di una di quelle notti insonni don Turiddu prese la sua decisione, che egli giustificò di dover fare per il bene della famiglia.
Andò a bussare ad un portone e chiese udienza al padrone di casa.
Questi ruppe il silenzio vedendo l’ospite in grave imbarazzo e disse:
-   Don Turiddu carissimo, quale motivo vi porta a fare onore alla mia casa?
L’altro, dopo una lunga pausa imbarazzata:
-   Don Calojiru caro, sta Mèrica ni sta rovinannu a tutti; un tintu carriaturi torna cc’on carrettu di scuti e n’ accatta a tutti. Chisti sordi miricani nun su’ scuttati ppi nnenti!
Don Calojiru ascoltò per filo e per segno, non promise nulla di certo ma il tono lasciava trasparire la sicurezza che solo un “uomo d’onore” era capace di dare.
Più tardi, come di solito don Calojiru andò all’Umberto I; prese amichevolmente al braccio don Jachino e se lo portò nella sala di lettura. I soci presenti fecero finta d’aver completato il rito della scorsa al giornale e lasciarono gli altri due ai loro discorsi…
Don Jachino quel giorno fu più tetro del solito a pranzo; disse che gli era passato l’appetito e si ritirò nella sua stanza a preparare il bagaglio.
Salutò in fretta la sorella per l’ultima volta e le disse che avrebbe mandato per posta la procura a vendere.
La nave sulla quale s’era imbarcò per l’Argentina don Jachino solcava già l’Oceano, quando una mattina, prima che all’officina arrivassero i giùvini, don Turiddu ricevette una visita inaspettata: Don Calojiru tirò fuori da scappulara con gelosa delicatezza tre piastre di cera vergine su cui erano impresse la impronte di altrettante chiavi di quelle con profili articolati che servivano a chiudere i magazzeni delle masserie e che il padrone teneva sempre alla cinta… salvo quell’istante bastevole a trarne la forma sulla cera d’api. Su di esse Turiddu nottetempo avrebbe realizzato preziosi duplicati in ferro…
Mi sovviene un nostro proverbio: n' manu lava l'autra; qualcuno, con ironica tristezza, aggiunge, e tutti dui allordanu a facci!

P.S. – La presente storia è assolutamente vera e mi è stata raccontata molti anni fa, fin nei minimi particolari, da un figlio di don Turiddu, anch’egli passato all’altra vita. Sono stati cambiati i nomi per rispetto d’altri familiari viventi.

Re: I drammi dell'emigrazione Da: Rommel Inserito il: 30 August 2008, 12:16:29
bellissima la storia e l'affermazione
"Don Calojiru caro, sta Mèrica ni sta rovinannu a tutti; un tintu carriaturi torna cc’on carrettu di scuti e n’ accatta a tutti. Chisti sordi miricani nun su’ scuttati ppi nnenti"


bravo e grazie OSVALDO