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Autore Discussione: Personaggi del passato 2  (Letto 37215 volte)
osvaldo

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« Risposta #15 inserita:: 29 Dicembre 2009, 16:26:54 »

rimango sempre affascinata dai tuoi racconti, attendo con ansia il seguito della storia. Auguri e saluti ricambiati  Ciao Ciao 


Grazie per l'attenzione ai miei racconti, che in fondo sono i nostri, quelli dei nostri vecchi. E' un peccato farli perdere: sono il nostro piccolo patrimonio storico. Prendo spunto da questo discorso e vorrei che tu chiedessi a papà i ricordi che ha di Totò Gioia, il grande tenore, immaturamete scomparso. Era pure lui del 1933. Grazie ancora.
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osvaldo

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« Risposta #16 inserita:: 29 Dicembre 2009, 16:42:31 »

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« Ultima modifica: 15 Dicembre 2016, 10:16:30 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #17 inserita:: 29 Dicembre 2009, 18:15:31 »

Osvaldo carissimo, questa storia è veramente bellissima!
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« Risposta #18 inserita:: 02 Gennaio 2010, 21:02:57 »

bella!

Ho avuto modo di leggerla a voce alta, a chi condivide con me a casa questo primo freddo romano del 2010.
Complimenti!!!   Applauso Applauso Applauso
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« Risposta #19 inserita:: 03 Gennaio 2010, 15:35:15 »

che storia... Grande! osvaldo, anche al freddo di montagna questo racconto ha fatto bella compagnia
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« Risposta #20 inserita:: 13 Gennaio 2010, 17:22:43 »

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« Ultima modifica: 15 Dicembre 2016, 10:18:45 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #21 inserita:: 25 Aprile 2010, 11:04:25 »

Conoscevo il dr. Butera di vista.

Incrociando la figura di questo signore (persona distinta... d'altri tempi si dice in questi casi) con i brevissimi racconti di mio Padre, di mio Zio, mi sento perfettamente in linea con le tue parole Osvaldo nel descrivere l'uomo.
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« Risposta #22 inserita:: 03 Ottobre 2011, 21:54:24 »

Una fredda incruenta vendetta

La nostra via Milano, la più lunga dopo il Corso Garibaldi, si estende “da muramma”, oggi via Cossa, fino “a stratella”, il corso Regina Margherita; essa taglia in due il rione Cavour, il più grosso del paese, e dal lato sud della stessa iniziano in parallelo  le vie in salita  che portano al quartiere più  alto, “u Cuzzu”, che si estende “de Vaschi finu o Cummentu”.
E’ “a strata de’ Santi” per eccellenza perché la più lunga fra le altre.
Mi sto dilungando a parlare della via Milano per un valido motivo di cui forse in pochi in Villarosa saranno a conoscenza: essa non fu così nominata in onore della metropoli lombarda, ma in omaggio ai Milano, famiglia imprenditrice di “gabelle” di zolfo, il cui ultimo rappresentante, che io bambino conobbi, fu don Ciccio, la cui abitazione aveva l’ingresso principale alle camere sulla via Notarianni, ma la proprietà si completava nei  “catòja” sottostanti, che s’affacciano proprio sulla via Milano.
Non fu l’unica famiglia a imporre il proprio cognome alla toponomastica cittadina: via Butera, Genco, Torregrossa, Notarianni, Falzone, Casale, Deodato, Manganaro e tantissime altre sono ancora i segni ben visibili del tempo in cui la gente comune non aveva alcun potere e la città era retta solo da persone il cui censo concedeva loro il diritto all’elettorato attivo e passivo.
Il più rappresentativo della famiglia Milano fu Giovanni, noto a tutti come don Vannuzzu, che fu più volte sindaco di Villarosa sul finire dell’800.
La via della democrazia, come sempre, è irta d’immense difficoltà. Dell’impresa garibaldina il grosso del popolo siciliano capì ben poco, ma sperava tanto che qualcosa potesse cambiare anche per le classi più povere, con una più umana riforma agraria e con una meno ignobile condizione dei “carusi” che entravano nel sottosuolo a cominciare dai sei anni, strappati ai giochi e alla scuola che non avrebbero mai conosciuta. A queste giuste e sacrosante aspettative non seguì nulla, anzi all’alterigia dei nobili s’aggiunse quella dei borghesi che imitarono in tutto i più antichi modelli e, pavoneggiandosi come “galantuomini”, disprezzavano il popolino più di quanto avessero fatto le classi dominanti precedenti. I borghesi, grazie al loro reddito, furono eletti nelle amministrazioni locali in combutta con la nobiltà e imposero con pugno di ferro alla comunità tutto ciò che favoriva i loro personali interessi.
Non tutto il popolo era acquiescente a tale stato di cose, tant’è che le ribellioni furono frequenti e molti preferivano darsi alla macchia pur di sfuggire alle inevitabili ritorsioni dei potenti.
In quegli anni fu in foga fra i giovani del popolo la moda, in sé innocua, di sfoggiare con una certa baldanza un superbo ciuffo di capelli fatto crescere con tanta cura, quasi a volerlo contrapporre all’arroganza della nuova classe. Tale forma di pacifica sicumera poteva di per sé non essere considerata tanto pericolosa, ma la borghesia, temendo che essa fosse l’anticamera di ribellione o futura affiliazione al banditismo, mal sopportò tale borioso portamento.
Don Vannuzzu Milano, nella qualità di sindaco, fu in testa fra tutti a darsi da fare al fine di stroncare tale usanza, giungendo a prepotenti vie di fatto. Si procurò un’affilatissima forbice da barbiere, che teneva costantemente  nel taschino a sinistra della giacca, e la domenica pomeriggio si tratteneva in piazza, spalleggiato da propri sostenitori e con a vista la vigile presenza delle guardie  municipali, sempre pronte a distribuire nerbate a ragazzi scapestrati o a maturi ribelli.
Quando egli vedeva emergere tra la folla un pomposo ciuffo chiamava a sé il giovanotto e in men che non si dica glielo devastava con una decisa sforbiciata. L’istinto alla naturale reazione veniva frenato dagli amici del malcapitato che temevano seri grattacapi e dal gruppo di tirapiedi del sindaco che gli facevano corona.
Da quel momento tutti i giovani portatori orgogliosi del pomposo ciuffo fecero di tutto per evitare l’umiliante sopruso, tenendosi ben lontani dallo sforbiciatore o facendo finta di non sentire la sua autorevole chiamata.
Lo sconsiderato gesto fu giudicato dall’opinione pubblica in genere e dai giovani in particolare piuttosto oltraggioso, tanto che rimase vivo nella memoria collettiva. Non si creda però che un tale sopruso sia stato un raro episodio, il De Simone parla di un funzionario del Duca di Notarbartolo,  (allora si esigeva ancora il censo sulle terre)  il quale il pomeriggio si divertiva al balcone del palazzo ducale con un fucile ad aria compressa a spezzare la canna delle pipe degli zolfatai che stavano a crocchi a discutere in piazza, fin quando le vibrate proteste fecero recedere da tali bestiali borie.
Intanto l’irrisolta questione socio-economica spinse tantissimi a arrischiare l’avventurosa via dell’Oceano per raggiungere gli Stati Uniti, terra promessa di benessere e libertà.
Le rimesse in dollari di tali emigrati sconvolsero nel giro di poco tempo l’arcaica economia siciliana perché il prezzo degli immobili salì alle stelle, tanto che i compratori locali, vittime di tale scompiglio che vanificava il legittimo diritto a farsi una casetta o un podere da coltivare, andavano ripetendo tristi e scombussolati: “Simu cunsumati, sti sordi miricani nun sunu scuttati ppi nnenti”.
Persino piccoli imprenditori e gabelloti di pirrera, stupiti da questi improvvisi guadagni, presero in seria considerazione la possibilità di tentare maggior fortuna in quella ricchissima terra.
Uno di questi fu don Vannuzzu Milano.
Il suo arrivo negli States fu accolta con gioia dai villarosani, compresi quelli che politicamente si sentivano lontani da lui: era un pezzo di Bellarrosa che veniva incontro a loro.
Non c’era festa o ricorrenza in cui non fosse invitato speciale il rappresentante della patria remota.
Ma non tutti la pensavano allo stesso modo: ad alcuni bruciava ancora l’umiliazione subita nella pubblica piazza.
Intanto giunse a Villarosa la notizia di un trattamento di mala creanza riservato all’ex primo cittadino in quella terra lontana, ma altri più precisi particolari non si poterono conoscere perché per lettera nessuno volle esporsi a riportare dettagli scabrosi o a fare commenti che avrebbero tradito i sentimenti di chi scriveva. 
Mille e mille furono le congetture, ma nemmeno la più forbita  delle immaginazioni riuscì a cogliere la crudezza della traversia vissuta  da don Vannuzzu.
Dopo il rientro da Brucculinu  dei primi paesani fu possibile ricostruire con qualche approssimazione l’accadimento.
Tre villarosani, presunte vittime delle antiche sforbiciate, ordirono un agguato notturno al ritorno di don Vannuzzu da una delle feste alle quali era di consueto chiamato come ospite d’onore.
La manipolazione della materia prima da usare presupponeva un reale rischio di antipatico imbrattamento anche a carico dei vendicatori, così decisero di tirare a sorte  chi dei tre avrebbe fornito la sostanza e affrontato di petto la vittima, mentre gli altri due avrebbero immobilizzato con le robuste braccia il malcapitato.
Il sorteggiato si sentiva il più impegnato perché gli toccava di organizzare il piano esecutivo. Ma quando vide che il figlioletto, intento a giocare con una vescica di maiale che egli stesso gli aveva procurato e gonfiato per giocarci a mo’ di palloncino, capì che la parte più antipatica dell’esecuzione poteva considerarsi superata.
Quando tutti in casa dormivano scese giù in giardino e operò con pazienza sulla vescica; la riempì fin dove poté, la serrò con un nodo al collo della stessa e la nascose sotto il terriccio.
L’occasione si presentò come previsto la notte successiva. Don Vannuzzu lasciò la compagnia degli amici che l’avevano ben gradito.  Aveva mangiato di gusto e bevuto altrettanto. Per far più presto si avviò per stradette secondarie poco illuminate che di già ben conosceva; ad un certo punto, spinto da un impellente  bisogno, s’accostò ad un muro per svuotare la vescica, offrendo agli aggressori facilità di presa;  fu immobilizzato e messo a tacere con uno straccio infilato in bocca; qui intervenne  il terzo personaggio che aveva  il compito di completare l’agguato; gli serrò con possenti dita le narici; il malcapitato mollò la straccio e istantaneamente si senti inondare bocca, faringe e giù di lì di una materia nauseante il cui fetore ne tradì la natura. Liberato dalla morsa essa subito fu sputata, spruzzata, vomitata.
Il malcapitato, pur stordito e ottenebrato nelle facoltà mentali, tentò di liberarsi dell’imbrattamento ma subito capì che non ce l’avrebbe fatto con gli scarsi mezzi che aveva; concluse che non era il caso di presentarsi a casa in quelle pietose condizioni e scelse alla fine di servirsi di un bagno pubblico dove offrì l’inumano spettacolo a quanti si trovarono ad entrare per i loro normali bisogni o altri per godersi, come per caso, l’inusuale scena.
In paese nei mesi successivi non si parlò d’altro, con opposti commenti.
La superiore versione fu riferita da un emigrato rientrato da Nuova York ad un pubblico attentissimo in coda ad un’assemblea ordinaria di soci della Società Umberto I. La testimonianza era stata sollecitata con gelicatezza dal Presidente del Circolo in persona.
Egli stesso alla fine chiese se fossero noti i nomi dei tre “vendicatori” di tutti i giovani bellarosani offesi nel passato.
L’emigrato rispose:
- Pe’, Ja’ e Calò
Il Presidente, afferrato il senso della risposta, con un garbato sorriso chiuse il discorso, tacendo.
Al contrario, concitato al massimo, prese la parola uno di quelli che era stato in passato tra i tirapiedi di don Vannuzzu protestando energicamente contro tanto mistero in quanto i tre screanzati dovevano pur avere un cognome o na ngiulia…
U miricanu , con un altro significativo sorriso, bloccò ogni successiva replica, citando un detto allora molto in voga nei paesi a noi vicini:
Pe’ Ja’ Calo’ su’  tutti di Bellarrò!
« Ultima modifica: 06 Ottobre 2011, 18:11:36 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #23 inserita:: 16 Marzo 2012, 09:49:59 »

                                                           DUE PRETI INDEGNI DEL XIX SECOLO

Spesso mi chiedo quanti saranno stati nel tempo i fatti scabrosi, relativi a persone che contano o che fanno parte di congreghe, maliziosamente coperti da quella polvere sottile che la falsa Storia lascia depositare silenziosamente.

Per fortuna spesso questa cinerea coltre si rivela  neve che si scioglie pur tardivamente al sole della verità.

Da poco sono venuto a conoscenza di opere di due poeti villarosani dell’ ‘800 che inspiegabilmente sono rimasti ignoti persino ai nostri vecchi: Salvatore Scavone e Giuseppe Albo. Ambedue ottimi verseggiatori in lingua italiana: il primo si dichiara allievo del secondo a cui dedica con immensa devozione una sua opera. Del secondo spero di poter parlare in altro momento.

Il volumetto “POESIE” di Salvatore Scavone è del 1872, edito in Caltanissetta dallo Stabilimento Tipografico dell’Ospizio di Beneficenza. In esso sono contenuti fra l'altro due sonetti che riguardano la moralità di innominati preti suoi contemporanei. Molte poesie della stessa silloge sono riprese nella sua opera successiva “PRIMI FIORI”, ma dei due sonetti che seguono non si trova più traccia in quest’ultima. 

Ritengo opportuno citarli in questa sede per completare il discorso iniziato su questo delicato argomento che a suo tempo avrà fatto senz'altro tanto male alla pubblica moralità e soprattutto alla Chiesa.

E’ il caso di far notare ai soliti bacchettoni, che nel momento in cui essi puntano il dito sulla rilassatezza dei costumi della società in genere, ignorano i peccatori della loro Chiesa. Essi si ergono a giudici severi perchè si autoproclamano esclusivi possessori della Verità, puntano il dito sui comuni peccatori e nello stesso tempo coprono le malefatte dei loro congregati.

Spesso la Chiesa, mostrandosi caritatevole e dispensatrice di perdono, nasconde la cruda verità dei fatti che riguardano suoi fedeli, dimenticando di tradire le chiare parole di Gesù: “E' necessario che gli scandali avvengano”.

Quello che non dovrebbe esistere è il peccato, ma una volta che esso c'è dovrà essere messo in luce per far riflettere i membri della società tutta, dei credenti e dei non credenti.

A 140 anni dei fatti narrati nulla è cambiato nell'orientamento morale della Chiesa che nel caso dei preti pedofili, del caso Claps o degli scandali finanziari una chiara risposta non l'ha mai data e la tradizionale coltre di silenzio incancrenisce sempre più la società, Chiesa compresa



Da “POESIE” di Salvatore Scavone pg.7
LA MORTE DI UNO SFRENATO PRETE

Fra sozze tresche amò la vita, or l’empio,

stanco per gli anni, in lagrimevol suono,

ei, che fece di tutto un crudo scempio,

osa all’Eterno dimandar perdono.



Profanò del Signor l’altare, il tempio,

fe’ tremare, imprecando, il divin trono.

O delusi credenti, ecco l’esempio

di chi disse di Dio, Ministro io sono!



Spregiuro ai sacri voti, ebro germano

di Giuda, il qual con un sol bacio almeno,

ed ei con mille a Cristo il seno aprìo.



Sangue innocente imporporò sua mano,

vergin sedusse e ne corruppe il seno…

Ed or sì tardi vuol placare Iddio!



         Questa descrizione si attaglia bene al “parrinu bagasciu”,.di cui si  è parlato

         



Da “POESIE” di Salvatore Scavone pg.8
UNA STAFFILATA AL PRETE

Mostra all’aspetto d’aver buono il cuore,

fugge la vanità, giammai s’adira,

di Bimbo sembra aver l’almo candore,

a venerarlo l’apparenza ispira.



Soffre disprezzi, angustie, ogni dolore

per amore di Gesù, per cui delira,

e notte e dì con eccessivo ardore

il devoto fedel piange e sospira…



Oh, ipocrisia di sì malvagia prole,

in volto ha la virtù, mortal veleno

nascosto in core e nell’infida mente.



Molti egli inganna con dolci parole,

di vergin casta e pia corrompe il seno…

Povero Cristo e sciagurata gente!

[/size]

Questo esempio di viscida ipocrisia si adatta a perfezione alla figura del padre naturale d’un serio professionista villarosano, di cui da ragazzo sentivo parlare, e che, già prima ch’io nascessi aveva trasferito la sua attività in una città vicina, dove io studente lo conobbi, molto vecchio, nel 1950.

I vecchi della mia infanzia, pur stimandolo, dicevano serenamente, che, nato in una poverissima famiglia, non avrebbe potuto laurearsi ed impiantare la sua costosa attività se non grazie all’aiuto materiale del padre naturale, un prete.

La data di nascita dello stimato concittadino coincide con la pubblicazione dell'operetta originale dello Scavone.
« Ultima modifica: 16 Marzo 2012, 09:56:09 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #24 inserita:: 10 Settembre 2012, 21:35:46 »

                          PINUZZA

   Non ebbi mai occasione di conoscere personalmente Pinuzza G. e  d'apprezzarne la decantata bellezza,  perchè ero ancora ragazzo ed abitavo in un quartiere lontano dal suo. Però ebbi necessariamente cognizione della sua chiacchierata vicenda perché la crudele canzoncina, che si canticchiava in ogni angolo del paese, era nota persino ad innocenti bambini. Di essa rimasero impresse nella mia memoria  un paio di versi che per decenni risuonavano nelle mie orecchie, forse perchè citavano il personaggio maschile che, anche se solo di vista, conoscevo di già:

   Pinuzza la G. cchi facisti?
   ccu Carminu D. ti nni scappasti...

   Circa vent'anni fa venne a scuola per un certificato di studio una concittadina del mio quartiere, di qualche anno più giovane di me e da tempo trasferitasi in Palermo. Questa, felice di ritrovarsi sia pur di passaggio nella segreteria della scuola che aveva frequentato e a contatto con villarosani, diede la stura ai suoi ricordi che io, avido  di storia popolare, avrei voluto in buona parte registrare al volo.
Al caso di Pinuzza aggiunse qualche altro verso che sono riuscito a serbare nella memoria:

   Cincu mila liri ti li purtasti
   ma o stessu nne tavuli durmisti...

   I pretendenti della giovane erano tanti e di ceti sociali diversi, ma il suo cuore era impegnato ad un giovane avvenente zolfataio, pur egli a me sconosciuto  e che ora indico come Tano. Questi, alla scoppio della guerra, s'aspettava di giorno in giorno il richiamo militare, così propose prima a  Pinuzza e quindi alle rispettive famiglie, d'accelerare i tempi del matrimonio.
   Gli sposini vissero in coppia pochi giorni fin quando giunse l'odiata cartolina.
   Nei primi tempi ogni tanto Tano otteneva una licenza o un breve permesso che faceva per il momento attenuare la tristezza della lontananza. L'unico conforto per i due innamorati rimaneva la corrispondenza epistolare e la quasi matematica certezza che la guerra si sarebbe conclusa di lì a poco, considerate le celeri avanzate degli alleati tedeschi.
   Pinuzza poi per qualche tempo aspettò una lettera che tardava ad arrivare; ogni mattina “si mittiva e talai” per intercettare il postino ed aver subito l'eventuale attesa missiva. Poi per molte settimane allungò invano il collo per scorgere il latore della cartacea felicità; finalmente una mattina, al colmo della tensione, ebbe in mano quanto attendeva.
   Tano raccontava che era stato destinato alla campagna di Russia; avanzava verso est su un lento treno per una ignota e lontanissima destinazione; raccontava alla cara sposa che non c'era nessun paragone con le distanze di Sicilia o d'Italia.
Da quel momento la corrispondenza divenne sempre più rada finchè venne meno per sempre.
   Luglio 1943, gli anglo-americani sbarcano nella  Sicilia centro-meridionale; ci si rifugia nelle grotte e nelle gallerie di  vecchie miniere...
   Erano anni tristi per centinaia di migliaia di spose e madri. Pinuzza non era meno delle altre, anzi per molti animi sensibili di vicine e parenti era considerata una sepolta viva  e nessuno riusciva a farla uscire di casa nemmeno per le feste principali, un funerale o una cerimonia in chiesa.
Addirittura alcuni per vile egoismo auspicavano che Tano non tornasse più, per potere un giorno impalmare la giovane vedova; altri ronzavano intorno alla casetta della sposina per meno nobili motivi.
   Due anni ancora passarono fra le angosce delle attese e le difficoltà dell'esistenza stentata.
   Giunse con la  primavera del 1945 la tanto attesa pace mondiale; a poco a poco giungevano dai lager tedeschi o dai campi di prigionia anglo-americani i militi superstiti, ma di Tano in assoluto nessuna notizia.
   Pinuzza rimaneva sempre più chiusa nel suo tacito dolore.
   Si parlava dei circa ottanta mila prigionieri italiani dispersi nelle steppe dell'URSS e i familiari di Pinuzza si sforzavano in ogni modo di non far giungere tali notizie alla sposina sempre più sconsolata e chiusa nella sua pena.
   Molti giovani del paese cumu lapuna gironzolavano in ogni ora del giorno e della sera intorno alla casa della giovane al centro della loro attenzione, sperando di intravederla e, in un modo o l'altro, farle conoscere, sia pur con una semplice attenzione d'un incrocio d' occhiate,  la loro più o meno onesta intenzione. Altri speravano nell'intermediazione di qualche amica e arrivavano persino a proporre un'unione di fatto dal momento che i tempi della morte presunta rimanevano lontani.
   Di certo non mancavano le anime buone che si dolevano delle afflizioni della poveretta, ma la loro comprensione non faceva, per nulla, proseliti nel vicinato.
   Nel rione abitava Carminu D., baldo giovane  meno maturo dell'avvenente Pinuzza; egli tempo dopo  avrebbe sposato una gioviale coetanea dalla quale ebbe bei figlioli, la più giovane dei quali vive in atto a Villarosa.
   Una di quelle tristi mattine del tardo dopoguerra si sparse  la voce  che Carminu non si vedeva in giro da qualche giorno. Invece di chiedere alla notizie alla famiglia si cominciò a creare una piccante storia di fuga d'amore, di na fujtina.
Subito le ciarliere del quartiere si misero all'opera e crearono un'orecchiabile canzoncina impietosa con nomi e cognomi che ebbe la “fortuna” che non meritava.
Ancora oggi miei coetanei, e forse altri, più giovani, canticchieranno:

Pinuzza la G. cchi facisti?
ccu Carminu D. ti nni scappasti...
Cincu mila liri ti li purtasti
ma o stessu nne tavuli durmisti...

eccetera,           eccetera...

   Pinuzza  vittima vivente di due guerre, della Mondiale e di quella di Cortile, lasciò, di notte e per sempre, l'ingrato paese.

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« Ultima modifica: 10 Settembre 2012, 21:38:15 da osvaldo » Registrato

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