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Autore Discussione: I racconti di Villarosa  (Letto 23534 volte)
osvaldo

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« inserita:: 13 Settembre 2008, 00:37:43 »

Giufà è un personaggio presente in tutti i paesi della Sicilia. Ma non solo, egli, con nomi leggermente diversi che indicano un’origine comune, è presente in quasi tutti i Paesi bagnati dal Mediterraneo: ovunque è il tipico sciocco di paese che ogni tanto per puro caso ne fa una buona.
Nella rete si trovano tante versioni su Giufà, ma la breve storiella che segue è tipica di Villarosa.

                                                              A TTIRATI A PORTA

Era un Giovedì Santo. Quell’anno era arrivato un bravissimo predicatore, molto conteso dalle parrocchie dei vari paesi, e quella era un’occasione unica che difficilmente si sarebbe ripetuta.
Fin dal primo pomeriggio una marea di gente si era riversata in chiesa per occupare i migliori posti per ascoltare le sette prediche che ogni anno in quel santo giorno si protraevano fino a tarda sera. La madre di Giufà non volle essere da meno rispetto al resto del paese, così andando in chiesa alcune ore prima che iniziassero le attese omelie, disse a Giufà:
- Ì vaiu avanti e pigliari i pusti, tu e cincu ti tiri a porta e vini a chisa.
Le prediche non erano ancora cominciate e la chiesa era già colma al massimo. Ad un tratto la folla vicina all’ingresso cominciò a ridere a crepapelle e fece passare fra due ali Giufà, trafelato e sudato, che gridando portava sulla schiena la porta di casa sua.
La madre poverina si voltò indietro come tutti gli altri ma non potè ridere altrettanto.
E gli gridò disperata: - Figliu scialaràtu, ti dissi sì di tiràriti a porta, ma no di nnéscila de’ càncari e purtalla cca.
Da questo racconto è nata l’espressione “Essiri a ttirati a porta”  per indicare persona goffa e scombinata.
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Rok


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Ragazzo morto guarda spettaculo de la vita


« Risposta #1 inserita:: 14 Settembre 2008, 09:54:36 »

Come sempre è un piacere leggerti... Grande!
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CHI SORVEGLIA I GUARDIANI..?
shark


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« Risposta #2 inserita:: 14 Settembre 2008, 11:35:29 »

Proprio l'altro giorno, durante una scambio di opinioni relativo a metodologie operative con un collega, mi trovai a raccontare questo aneddoto. Il mio interlocutore nato in lombardia ma di origini campane, si trovò  a condividere  con me come nelle organizzazioni sia pubbliche che private  regna la metodologia a "tirati a porta".
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osvaldo

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« Risposta #3 inserita:: 22 Settembre 2008, 22:48:15 »

                                            Cumu a pisciazza di Giufà
C’è un vecchio detto in Villarosa: quando diverse persone non ritengono di continuare a far qualcosa insieme ed alcuni si defilano lasciando la situazione senza una conclusione e nello tesso tempo senza esprimere un secco rifiuto, quello a cui la circostanza sta a cuore, si lamenta dicendo: - Cu si nni va di cca cu si nni va di dda, cumu a pisciazza di Giufà...
Ovviamente l’espressione nasce al solito da un racconto di Giufà che nei tempi passati era uno dei maggiori protagonisti delle narrazioni popolari, quando le famiglie, non avendo altra alternativa di svago, si raccoglievano intorno a un po’ di fuoco e alla fioca luce d’ un canniliri, e si cuntavanu i cunti.


Nelle campagne intorno al paese di Giufà operava una pericolosa banda di malfattori che terrorizzava non solo i ricchi, ma anche poveri diavoli che capitassero nei paraggi, al fine di allontanare anima vivente dalla zona.
Le forze dell’ordine perlustravano da mesi il territorio ma non riuscivano ad individuare il covo dei banditi, che sembravano svanire nel nulla dopo i vari colpi che andavano tutti ben a segno.
Giufà dal canto suo continuava a girovagare come se niente fosse per le campagne e a quanti gli raccomandavano di starsene in paese come tutti gli altri, ridendo rispondeva: - Tri ppila javi u ma purcu! Come a dire io non ho nulla da perdere.
Una mattina di quelle, Giufà bighellonava nel bosco in montagna e per farsi compagnia, o forse perché  un po’ di paura in fondo l’aveva pure lui, rappresentava  i suoi pensieri a voce alta.
Ad un tratto gli venne di fare pipì. Mentre scaricava la sua vescica osservava i vari rigagnoli che si dividevano secondo la pendenza del terreno. Seguitando ad illustrare a voce alta quel che vedeva, gridava ai vari rivoli della sua orina: - Tu piglia di cca…. Tu piglia di dda… Tu gira a manca …. … Tu fermati dducu e aspetta u cumpagnu ca sta arrivannu… Tu gira a dritta … Tu avanti… Avanti… Avanti… E così di seguito.
A pochi metri da lui c’era un anfratto la cui apertura era coperta dalla macchia intricata e li stavano i banditi nascosti nell’ora più calda della giornata.
Costoro avevano sentito Giufà parlare ad alta voce e ritenendo che si trattasse del maresciallo dei carabinieri che dava ordini, uscirono allo scoperto e si lanciarono per la discesa in cerca d’altro rifugio o guadagnare la via della salvezza.
Giufà finalmente s’accorse di quel fuggi fuggi, ma non capì nulla; anzi credendo che si trattasse di una corsa fra amiconi si unì a quelli con grande contentezza.
I carabinieri che stavano a valle videro la polvere sollevata da passi scomposti dei fuggitivi e, armi in pugno, accolsero i banditi in una fortunata retata.
Si trovarono tra le mani anche Giufà, ma, conoscendolo, non lo consideravano affatto.
E lui a gridare e a ripetere in continuazione: - Ì arrivaiu ppi  prima…, ì arrivaiu ppi  prima… a mmi tocca u premiu.A questo punto i carabinieri, riflettendoci un po’ di più, arrivarono alla conclusione che in fondo era stato Giufà a scovare i banditi.
Il Sindaco, giubilante per l’insperata liberazione della zona dai banditi, fece preparare la domenica successiva un’ imponente festa con banda musicale nell’ uniforme delle grandi occasioni. Fu invitato il Prefetto che, dopo aver fatto un discorsone con pubblico elogio a Giufà che aveva scovato l’ inafferrabile banda, gli appese una medaglia di bronzo sul petto.
Giufà giubilante restò convinto ch’era stato premiato per aver vinto la corsa.
I suoi concittadini, più invidiosi che mai, s’interrogavano con gli occhi  e continuavano a non capirci tanto.


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« Risposta #4 inserita:: 22 Settembre 2008, 23:03:08 »

Ormai sono superflui i complimenti . Leggendo queste storie torniamo indietro nel tempo, quando le serate trascorrevano attorno al nonno che narrava le cose che tu stai riportando alla memoria. Braaavo!
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Sempre contro corrente. E' il solo modo per alzarsi in volo.
osvaldo

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« Risposta #5 inserita:: 14 Novembre 2008, 18:34:08 »

                                                  GIUFÀ E L’ASINO CHE SPARIVA E COMPARIVA

Si sa, Giufà era fatto così, a modo suo.
Ma non c’è da fare molti sforzi per immaginarlo perché in fondo egli è sempre vivo e i suoi fratelli, nostri contemporanei, sono costantemente in giro.  Non per niente si dice che la madre dei cretini è sempre incinta.
I Giufà di oggi hanno frequentato la scuola e magari hanno imparato a leggiucchiare. Il Giufà dei nostri racconti era analfabeta puro; quello della nostra storiella non faceva eccezione, ma sapeva ben contare fino a dieci, quante erano le dita delle sue mani.
Un ricco burgisi, riconoscente del fatto che Giufà aveva liberato il territorio dai pericolosi banditi, lo assunse nella sua masseria affidandogli lavoretti semplici ma di fiducia.
Un giorno che il padrone era impegnato in altre faccende, incaricò Giufà d’andare alla fiera d’un paese un po’ lontano per comprargli dieci asini.
Giufà partì a piedi di notte per essere di buon mattino al mercato e qui riuscì, eseguendo pedissequamente le istruzioni del suo principale, ad acquistare tutti e dieci gli asini.
Stanco morto com’era salì in groppa di quello che gli dava più affidamento in quanto a forza e resistenza, quindi riprese la via del ritorno.
Stanco della nottataccia passata a camminare si appisolò qualche istante sempre stando a cavalcioni sul somaro e sognò che gli rubavano gli asini. Si svegliò di soprassalto e cominciò a contarli. Conta e riconta e il risultato era sempre quello: gli asini erano nove!
Disperato scese giù dall’asino e si mise a piangere disperato. Poi datosi conforto un po’, rifece la conta con le dita e il risultato fu di dieci questa volta. Ricontò ancora ed erano sempre dieci.
Felice riprese il cammino in groppa al solito asino.
Il dubbio e la paura di perderne sempre qualcuno l’indusse ad un nuovo accurato controllo: maledizione! Erano di nuovo nove.
Rifece i conti un’infinità di volte, ora cominciando dal primo e poi ricominciando dall’ultimo, ma le bestie risultavano ogni volta nove…. nove…  sempre nove.
Si buttò a terra disperato; bagnò la polvere con le sue lacrime e infine contò per l’ennesima volta e con grande sollievo gli asini ritornarono ad essere dieci.
Saliva ed erano nove scendeva ed erano dieci. Non si sapeva capacitare della stranezza del fatto che un asino scompariva e poi ritornava, allora prese la ferma e brillante decisione di rimanere a terra per non perdere nessun asino.
Così il povero Giufà con dieci asini a disposizione, esausto, avvilito e trafelato, si rifece a piedi, ancora una volta, la strada verso la masseria.
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« Risposta #6 inserita:: 19 Novembre 2008, 18:11:15 »

                                                                      A TURRI

Gran festa nel regno, era nato l’atteso erede al trono. I magazzini del regno furono aperti e tutto il popolo ne godette; fiumi di vino per le vie erano offerti a chi ne volesse e i fumi degli stessi venivano sbolliti con canti, danze ed anche spropositi.
Una vecchia d’equivoco aspetto, dai capelli irti, vestita con panni di colori vari e sgargianti che non s’addicevano alla sua età, sbraitava con parole terribili che avrebbero fatto accapponare la pelle a tutti gli astanti, se non fosse stata per l’euforia alcolica di cui erano posseduti.
La donna indispettita dal fatto che nessuno l’ascoltava, s’avvicinò al capo della gendarmeria, che al centro della piazza controllava che la pazza gioia non eccedesse più del dovuto, e lo investì con un precipitare di parole che annunciavano disgrazie per il neonato regale.
Con l’occhio clinico degli sbirri, il graduato la qualificò megera forestiera cui il vino aveva fatto perdere il controllo verbale.
Non se la poté più togliere dai piedi, perché insisteva a voler parlare direttamente col Re o con qualcuno più vicino a lui, tanta era gravità delle sue visioni, a proposito del principino appena arrivato al mondo.
Raccolse il suo atroce vaticinio il Primo Ministro.
A detta della scalmanata un grande fuoco sarebbe caduto dal cielo e avrebbe incenerito l’edificio in cui stava l’erede al trono.
Qualche giorno dopo, con le dovute cautele, il Re fu messo a corrente della bruttissima profezia.
Questi ne restò sconvolto più del dovuto perché la stessa Regina, durante la gestazione, più volte aveva fatto sogni inquietanti in cui c’era sempre di mezzo il fuoco.
Quella Reggia che fino a qualche giorno prima era stata la casa della gioia, d’improvviso divenne un triste e continuo mortorio.
I pareri dei saggi del Regno furono tanto discordi da non arrivare ad alcuna soluzione.
Infine il Ministro della Fabbrica Reale suggerì di costruire una torre di ferro, comunicante per mezzo di un cunicolo col Palazzo Reale.
Prima di decidere il Re volle sentire il parere d’un vecchio eremita che viveva in povertà sulle montagne e lo fece venire a corte. Questi, sentita la profezia e la soluzione della torre di ferro ch’era stata proposta, disse:
- U Signuri unni ti voli t’avi. E tacque.
La Regina, confusa tra il tormento che non allentava e la sibillina risposta, più ansiosa chiese ancora:
- Cchi vuliti diri?
E il saggio: - Chiddu ca dissi. E inchinandosi devotamente riprese stancamente la via dell’eremo.
La torre fu costruita in ferro con tutte le precauzioni e le migliori tecniche architettoniche note in quel tempo.
Divenne la gabbia del povero bimbo che cresceva bello ed intelligente fra genitori, maestri ed istitutori, giocattoli e trastulli più impensati, ma privo del contatto con coetanei e dei giochi usuali di tutti i bimbi del mondo.
Passarono gli anni tra generale tormento e angoscia, i genitori si ripetevano sempre le scarne parole dell’eremita, che intanto era passato a miglior vita, ma non ebbero mai la risolutezza di cercare consolazione nella volontà di Dio.
La vernata dei tredici anni del principino fu molto fredda ed umida. Una sera, visto che nevicava da più giorni senza lampi e senza tuoni, la Regina, pensando sempre al suo ragazzo triste fra mura metalliche, in un impeto di risolutezza chiese al marito di portare per qualche giorno il ragazzo fra le comodità della reggia. Si trovarono d’incanto tutti d’accordo. Alla neve seguirono piogge incessanti ma lo spirito dei grandi e del piccolo non fu mai così sereno nella loro casa consona alla loro condizione.
Una notte, da poco i coniugi regali erano andati a letto, all'improvviso un tonfo sordo e potente colpisce le orecchie e blocca i battiti del loro cuore. S’alzano di botto, s’interrogano con gli occhi, non sanno darsi una risposta. Chiamano maggiordomo e servitù, tutti avevano sentito, ma nessuno sa dare un parere, anzi qualcuno aggiunge d’aver sentito addirittura il pavimento tremare.
Intanto il tempo era mutato; alla pioggia segue un forte vento e bagliori lontani lasciano presagire l’arrivo di un temporale.
La decisione è immediata: portare il ragazzo nel suo rifugio sicuro; lo svegliano, lo coprono e si infilano nel cunicolo. I servi che li precedono con fiaccole e lumi si bloccano emettendo un grido di forte disappunto.
Che è successo?
Il budello è ostruito da un’enorme quantità di detriti e l’acqua comincia ad invaderlo. Si decide all’istante di tornare indietro perché non c’è al momento altra possibilità di raggiungere la torre, in quanto il temporale di già martella la città.
Fra lampi e tuoni rientrano nelle camere; tutti, regali e servi, uniti fra timore e disperazione, si buttano a terra in ginocchioni a pregare.
All’improvviso un accecante bagliore trafigge la stanza  attraverso le fessure delle imposte dei balconi e delle finestre, un botto assordante squarcia le orecchie e introna i cervelli… il silenzio che segue li trova tutti abbracciati senza distinzione di rango.
Un fulmine caduto sulla torre ferrea, l’ha spezzata e ne sta incendiando mobili e suppellettili.

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« Risposta #7 inserita:: 23 Novembre 2008, 20:32:52 »

                                                                              U PRINCIPI CRIVARU

                                                                                    PARTE PRIMA

Luisa aveva appena centrato la bocca della sua quartara alla cannella della fontana e seguiva con distacco il solito diverbio sui turni non rispettati, quando udì uno scalpiccio di zoccoli; ne fu contrariata, perché temeva che si trattasse dei consueti prepotenti garzoni del barone i quali esigevano sempre la precedenza al beveratoio.
Alzò con fierezza la testa e indirizzò uno sguardo di sfida ad altezza d’uomo in sella, e i suoi occhi non trovarono gli zoticoni che s’ attendeva d’incontrare, ma s’incrociarono con quelli di uno splendente cavaliere, in abiti e portamento ben diversi da quelli della gente del luogo.
Luisa provò imbarazzo per via dello sguardo di ribellione da destinare agli scostumati che aveva timore di trovarsi davanti, e come chi sentendosi colpevole di grave offesa volesse sprofondare sotto terra, abbassò lo sguardo oramai disarmato, tanto che la sua figura si ricompose piccola e fragile.
Il nobil uomo ne rimase talmente affascinato che non seppe esprimere a parole il suo soave  turbamento; saltò giù di sella, fece solamente un vago gesto con la mano come se volesse raccogliere un’immagine tremolante dallo specchio della fontana…
Quando si riebbe dallo stordimento momentaneo scorse la ragazza che, abbandonata la brocca e raccogliendo con le mani verso l’alto l’abbondante veste per non inciampare, si ritirava affrettatamente lungo il sentiero accidentato.
Il giovane, rimasto inebetito, si chiedeva quale fosse stato il suo atteggiamento così scorretto da poter produrre quella disastrosa reazione.
Al gentiluomo, quella fanciulla svanita dalla sua vista, restò impressa negli occhi come il ricordo di leggera capretta che saltella per schivar grossi sassi.
Ripresosi si volse verso le altre donne alla fontana e chiese loro il nome della bella giovane e a quale famiglia appartenesse.
 Apprese che si trattava di Luisa l’amata figlia dello scarparo, vedovo da poco.
I ragazzi, che giocavano nei pressi, percepito l’ inusitato scompiglio, s’avvicinarono curiosi e subito si offrirono di accompagnare il nobil signore alla casa  della ragazza.
Cavalli e cavalieri, preceduti dallo stuolo dei giovanetti, entrarono in paese creando ancora più trambusto. Il cicaleccio che li precedeva giunse prima di loro all’uscio della misera dimora, che al loro arrivo fu trovato sprangato.
Il principe fece un cenno ad un amico del seguito che lasciò cadere una manciata di spiccioli a terra; mentre i ragazzi erano intenti a raccoglierli, spronati i destrieri, i cavalieri svanirono al di là del sentiero donde erano venuti.
Del fatto se ne parlò in paese per più giorni; se ne fecero le più impensabili ipotesi.
La porta del calzolaio si riaprì, Luisa riprese le consuete faccende di casa, ma non andò alla fontana, per non alimentare curiosità aggiuntiva e non stimolare domande a cui nemmeno lei era in grado di darsi risposta, tanto meno di poterne offrire ad altri.
Il nobile cavaliere non s’era presentato, ma nientemeno era il principe ereditario Corrado, futuro Re del Regno di Populonia. Egli si trovava lì di ritorno da una battuta di caccia coi suoi amici più cari e s’era fermato casualmente solo per abbeverare gli animali.
Nessuno l’aveva riconosciuto, ma le movenze, la preziosità delle vesti e i ricchi finimenti dei cavalli, lasciavano trasparire una condizione superiore, inconsueta in quelle misere contrade.
Il futuro re era da tempo in età di prender moglie, ma non trovava, fra le ragazze della nobiltà o tra le figlie dei suoi pari, una che gli piacesse al punto di poterla scegliere come madre dei suoi figli e futura regina: quando non erano grassocce e pelose, le trovava frivole e superficiali.
Il re se ne doleva tanto perché prima della fine dei suoi giorni voleva vedere avviata la continuazione della dinastia.
Il Principe, dopo il casuale incontro alla fontana, aveva sempre avanti a sé l’immagine fugace della bella paesana e tanto lo teneva in uno stato di apatia continuo che gli faceva trascurare persino le attività a lui più care.
Il mutamento improvviso d’umore non sfuggiva a quanti stavano intorno a lui, dalla servitù che lo stimava tanto, ai suoi genitori.
La Regina pregò il consorte di lasciarla parlare col figliolo.
Questi con grande imbarazzo, perché ben consapevole della incolmabile differenza sociale fra il suo stato e quello della giovane, espresse alla madre l’angoscia che lo martoriava e le perplessità che lo bloccavano ad un tempo.
I trepidi genitori, ben conoscendo l’indole riflessiva e prudente del figlio, convennero di concedergli piena fiducia, lasciandolo libero nella sua difficile decisione.
Un fidato funzionario di Stato fu incaricato di raccogliere, con molta discrezione, notizie intorno alla moralità della ragazza e della famiglia: lo stato economico risultò a quanto era già supponibile; in quanto al resto nulla poteva dirsi che non fosse eccellente da tutti i punti di vista.
Una piccola delegazione si fece annunciare presso la modesta abitazione di Luisa, dove fu  accolta con dignitosa serenità.
Alla richiesta ufficiale di matrimonio, il calzolaio non si scompose affatto e chiese tranquillamente:
- Che mestiere esercita il Principe?
Un imbarazzante silenzio gelò l’atmosfera della linda e modesta stanzetta.
Il dignitario reale ruppe il ghiaccio facendo presente che il loro Principe sarebbe divenuto un giorno il Re della loro nazione, come lo erano stati il padre, il nonno e tutti gli avi che avevano avuto nei secoli per occupazione l’interesse generale dello Stato, per antico diritto dinastico.
Il padre di Luisa rimaneva irremovibile nella sua pretesa,  nella più rispettosa pacatezza.
Sconcertati i delegati lasciarono la casa salutando con cenni, in sommesso silenzio.
Il Re vagliò lo sconvolgente rapporto e capì di trovarsi innanzi ad una personalità non comune, forte e decisa: altri di qualunque ceto sociale avrebbero fatto salti di felicità, invece un umile ciabattino era in grado di dar lezione di saldo carattere ad alti dignitari e persino al proprio sovrano. Dello stesso parere fu il Principe, cui veniva agli occhi la figura ardita che voleva incenerirlo con lo sguardo scambiandolo con lo sgherro di qualche signorotto della contrada.
Il giovane, già innamorato d’una semplice leggiadra immagine fuggente, ora  se la ritrovava dotata d’ un energico e  deciso carattere, così rotta ogni esitazione chiese ai tecnici di palazzo di indicargli un mestiere di facile acquisizione.
Si convenne sull’ attività di stacciaio, mestiere semplice e celere ad apprendersi.
In incognito frequentò per qualche tempo un vecchio acconciatore di crivelli d’altra città e quando si sentì provetto nel mestiere, fece riferire al futuro suocero che aveva ben appreso l’arte di riempir vagli e stacci.
 Il matrimonio fu annunciato e celebrato con sfarzo.
Incontenibile fu la gioia del popolo che vide per la prima volta una loro pari salire al vertice della scala sociale della Nazione; contenuta ed ipocritamente ostentata l’ accettazione dell’aristocrazia che si sentiva umiliata dalla mancata scelta del Principe fra le giovani del suo rango e dal timore di veder compromessa la loro casta blasonata per questa inconcepibile scivolata verso il basso.
 La nuova principessa, di viva quanto plastica intelligenza, in breve tempo s’abituò alla vita di corte aiutata dal marito e dalla suocera: pochi mesi dopo a stento avrebbe qualcuno capito che quella dama provenisse dalla casa d’ un umile artigiano.
Al pronto ingegno s’accompagnava una grande sensibilità verso i problemi sociali ed in ogni occasione non mancava mai di perorare la causa degli ultimi del Regno.
Venuta dal mondo contadino ben ne conosceva i problemi e le angosce, e quando una sera durante una  conversazione apprese che i nobili, al contrario di quanto avviene nelle classi sociali inferiori, non pagavano tasse per la tenuta di cavalli, ne fu sconcertata e turbata.
Un ministro presente, emerito economista, sostenne la tesi che spiegava la ratio della disposizione: il contadino dal suo asino ne trae un reddito, mentre l’ aristocratico mantiene esclusivamente i cavalli per puro diporto, senza percezione di provento alcuno; anzi il nobile a causa di questo suo diletto offriva lavoro a stallieri, carrozzieri e maniscalchi.
La tesi non convinse la principessa che si battè perché fossero esentati dalla tassa sul bestiame almeno i piccoli coltivatori.
La disposizione fu approvata con scarso entusiasmo da parte della classe al potere, solo per non scontentare la futura regina.
L’insistenza della Principessa nella scelta di campo della difesa dei più poveri cominciò ad alienarle nobili e ricchi borghesi. Agli alti livelli l’immagine della giovane consorte del Principe veniva scalfita giorno dopo giorno, facendo circolare false notizie di improbabili balordaggini mai successe. Ad alto livello sociale  si faceva facile ironia sulla bassa provenienza familiare della Principessa  e sul padre calzolaio e sulla premurosa attenzione verso asini e villani.
Il popolo amava sempre la sua Principessa e ciò faceva imbestialire la classe dei potenti che non sapeva come muoversi tra l’ossequio alla monarchia e la difesa del prestigio di casta.
Negli anni a seguire i Principi furono allietati dalla nascita del futuro principino ereditario e di una dolce bimba; successivamente furono turbati della naturale dipartita dei loro vecchi.
Era cambiato il Re, le generazioni si susseguivano, ma l’ostracismo alla Casa Reale e in particolare alla Regina, venuta dal popolo, aumentava e si diffondeva sempre più.
Malgrado però il discredito seminato negli anni tra il popolo, i regali erano sempre in auge; di conseguenza gli aristocratici sempre invidiosi del successo cercavano sistemi più raffinati atti ad intebolire il prestigio del Re.

[continua]
« Ultima modifica: 23 Novembre 2008, 20:34:42 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #8 inserita:: 26 Novembre 2008, 20:41:15 »

                                                                            U PRINCIPI CRIVARU
                                                                                          PARTE II

Questa occulta fronda alla secolare monarchia era fomentata da un grosso feudatario, magnate della finanza e delle industrie più importanti, lontano parente del Re, il duca Norberto di Montetondo.  Questi era un uomo che non aveva nulla da invidiare a chiunque altro perché a tutto era arrivato e tutto si poteva permettere.  Ora voleva esplorare il campo della politica perché temeva che le idee democratiche della Regina potessero far aprire gli occhi al popolo, che di tanto in tanto si sommoveva per riavere le terre che la nobiltà nei secoli passati aveva sottratto alle comunità locali.
Cominciarono a serpeggiare in forma non ufficiale vaghe voci d’incursioni di navi di pirati saraceni in zone non meglio precisate della periferia del regno; il popolo minuto e i piccoli proprietari si allarmarono molto, temendo la schiavitù e la perdita della loro fede cristiana; s’arrivò persino a credere che orde ubbriache mangiavano persino i bambini.
I ricchi da un lato accreditavano le dicerie, dall’altro se ne stavano tranquilli.
Il duca Norberto chiedeva a gran voce al Re e alla Camera dei Pari l’ incremento delle misure di sicurezza con l’arruolamento di nuove truppe di sicura fede patriottica, inquadrate in una milizia con compiti speciali sotto il comando diretto del Re.
Le persone più riflessive trovavano strane quelle voci che potevano essere soltanto un retaggio di antiche paure, ma al presente del tutto inconsistenti perché il mare era ben protetto or da molto tempo dalla flotta dalle maggiori potenze europee. Intanto erano sempre più numerosi quelli che giuravano d’aver parlato con testimoni diretti scampati miracolosamente alle retate; improvvisati predicatori arrivavano persino a chiedere a gran voce nuove crociate contro gl’infedeli, surriscaldati dalle notizia non verificate che cavalieri musulmani avrebbero abbeverato i loro cavalli in San Pietro, in Roma.
Tanto più assurda era la paura dei Turchi, tanta più la si riteneva certa.
In questa situazione di fluida incertezza s’ inserì l’ intervento, tanto atteso, del Cardinale Primate che, nell’ omelia pasquale prima e sul giornale diocesano dopo, sostenne la tesi secondo cui compito dello Stato è di fare buone leggi e quello della Chiesa, più vicina ai bisogni del popolo, di amministrare la carità. Egli però, stranamente, non parlò affatto di orde musulmane che infestavano la costa orientale. Il tacere dell’alto prelato lasciò il popolo tutto assai perplesso, che non seppe darsi una plausibile spiegazione. Le anime candide pensarono che il sant’uomo si faceva carico del timore per l’immane pericolo che incombeva su tutti e nello stesso tempo non voleva turbare più di tanto il suo amato popolo, seriamente toccato.
Ma se da una parte l’alto Presule ignorava la diceria popolare delle incursioni saracene, dall’altra il clero minuto delle parrocchie raccoglieva, senza riflessione critica alcuna, le fandonie più assurde, angustiando ancor di più le persone semplici.
Il cugino del Re divenne il regista occulto della ricostruzione di un nuovo Stato e sottobanco prometteva tutto a tutti.
Tanta brava gente era affascinata dalla ricchezza del Duca e riteneva che un uomo così ricco non sarebbe stato mai e poi mai tentato di arricchirsi alle spalle del popolo, anzi ci avrebbe rimesso del suo per risollevare lo stato di miseria in cui versava gran parte della popolazione.
 Il Re da parte sua non si stancava di emanare comunicati per rassicurare la popolazione sull’ inesistenza delle vociferate incursioni saracene, che erano del tutto immotivate e rimanevano soltanto un ricordo di tempi lontani, superati dalla Storia. Le sue sagge parole cadevano nel vuoto ed anche per lui, come già per il Cardinale, la gente comune pensava che egli parlasse in questo modo per rincuorare il suo popolo.
Il Re percepiva gli strani movimenti, ma non arrivava al punto di prevedere l’ evenienza d’un colpo di Stato, che egli, sentendosi amato dal popolo, stimava pressoché impossibile.
Invece una notte, avvertito dai servi degli strani movimenti di militari intorno al palazzo reale, ritenne opportuno, per precauzione, uscire attraverso un cunicolo segreto e raggiungere il maniero di campagna d’un caro amico fidatissimo, accompagnato dalla cara consorte e dei piangenti bambini svegliati in gran fretta.
La prudenza non fu troppa perché nel più profondo della notte, prezzolati scagnozzi della nobiltà, spalleggiati dai militari, s’aprirono una breccia addirittura a colpi  di cannone nelle mura del palazzo reale.
L’incredibile notizia giunse al castello dell’amico, quando già era pronto per precauzione un modesto carro con poche masserizie su cui salì la famigliola in abiti da popolani.
Passarono il confine attraverso un sentiero nascosto fra la sterpaglia.
Nel nuovo Stato non vollero manifestarsi per paura d’essere traditi e consegnati alle spie del nuovo Regime che senz’altro dovevano essere dappertutto.
S’erano allontanati dal palazzo per pura prudenza, senza soldi né gioielli, ora si trovavano con un modestissimo capitale fornitogli dall’amico, impreparato anch’egli all’ inattesa circostanza.
Sempre temendo d’essere braccati e per non destare sospetti, i reali si confusero con la gente più povera, vivendo in anfratti naturali.
I Regali si dissero forestieri in cerca di fortuna e subito trovarano tante anime buone sollecite ad immetterli nella loro semplice comunità.
Corrado aveva un‘ idea della miseria un po’ vicina  alla realtà, ma non era a conoscenza delle doti positive del popolo, quali la generosità e la disponibilità a dare una mano a chi ha bisogno.
Anche lontano dal Regno si parlava tanto fra tutti gli strati della popolazione della fuga del Re e del mistero della sua sparizione; si facevano mille ipotesi e non si escludeva quella che già fossero stati uccisi da sicari dell’usurpatore e seppelliti in posto insospettabile. A far cadere questa supposizione però concorreva la frenesia delle ricerche che non si quietavano e l’ inquietudine degli sgherri fedeli al nuovo regime.
La modestissima dotazione che Corrado aveva ricevuto dalle mani dell’amico andava scemando e non c’era alcuna prospettiva di poterla impinguare; la situazione era disperata perché non era facile nemmeno alla giovane consorte trovar lavoro onesto in qualche casa di benestanti; di tanto il marito non si dolse, perché riteneva doveroso esser lui ad accollarsi l’onere del mantenimento della famiglia.
Nell’estremo bisogno il Re si ricordò d’ avere un tempo appreso, anche se a malincuore e per pura formalià, il modesto mestiere di stacciaio e capì finalmente lo spirito della  pretesa, assurda in apparenza, testardamente imposta dal compianto suocero.
Col poco denaro che era loro rimasto Corrado comprò i semplici arnesi del suo mestiere e i materiali occorrenti; se li caricava ogni mattina a spalla e girava le strade della zona, gridando a squarciagola i servizi che offriva.
I guadagni erano minimi, ma bastavano appena alla sopravvivenza della famigliola.
Col trascorrere del tempo, quando scemarono le febbrili e ossessive ricerche dell’esule, si poterono permettere di lasciare il rifugio di fortuna e gli amici che s’erano trovati lì nel momento dell’estremo bisogno; affittarono una modesta casetta, ed alzarono se pur di poco il loro tenore di vita.
Intanto a Populonia il nuovo Re con i suoi collaboratori si davano da fare per dare la concreta sensazione di un cambiamento che sarebbe dovuto giovare a tutta la popolazione. I primi ad essere ricompensati furono quelli che erano stati i più decisi a sostenere la rivoluzione; poi col pretesto della difesa contro gl’infedeli, furono potenziate in numero le forze armate: gli alti ufficiali dell’esercito divennero generali, e tutti gli altri avanzarono di grado. I servizi segreti furono incrementati ed altri se ne crearono per proteggere il nuovo regime, non più dai Saraceni,  ma da fantomatici nemici interni al soldo del re fuggiasco.
Le maggiori spese militari e i favoritismi eleargiti ai sostenitori del nuovo corso andavano dissanguando di più le già scarse risorse del Tesoro; così si cominciò ad accusare l’ex Re d’esser fuggito facendo man bassa nelle Casse dello Stato e che ora da fuori del Regno con questi soldi si tramava per il suo ritorno in patria.
Furono chiesti prestiti a banche internazionali e a risparmiatori locali allettandoli con alti interessi; la situazione finanziaria di mese in mese si faceva sempe più disatrosa, tanto che si decise che la Zecca cominciasse a coniare moneta per sopperire ai nuovi bisogni, sperando che con l’afflusso di nuova valuta circolante facesse incrementare il commercio e che con le maggiori entrate fiscali si rimettesse in sesto l’Erario.
In effetti si mise in moto un rigoglio di commerci che lasciavano ben sperare e si cominciò ad esaltare la capacità del nuovo Ministro, propugnatore d’un’economia creativa, libera dalle strettoie della vecchia burocrazia ottusa e pedantemente rigorosa.
Al successo iniziale non seguì però il maggiore introito fiscale previsto, in quanto borghesi, proprietari e industriali, in gran parte sostenitori del nuovo corso politico, si coalizzarono nel chiedere quei privilegi di cui godevano da gran tempo nobili ed ecclesiastici.
La coniazione di altra moneta, prevista per un breve periodo, fu più volte prorogata e infine fu lasciata a tempo indeterminato; i fornitori internazionali rifiutarono la moneta inflazionata e i prezzi delle merci d’importazione salirono alle stelle; i ricchi, rastrellando tutto ciò che c’era da comprare in fatto d’immobili, pagavano con moneta che nominalmente appariva abbondante, ma nella sostanza  risultava irrilevante per l’inflazione che aumentava. Intanto furono abolite, o modificata a favore del Tesoro, le leggi approvate a favore del popolo.
In particolare quella perorata dalla Regina che esentava i piccoli coltivatori dalla tassa sull’unico quadrupede posseduto, non fu abolita, ma solamente e ipocritamente emendata: si stabilì che erano esentati dalla tassa sul bestiame soltanto quelli che non figuravano in assoluto nel regio catasto. In pratica l’esenzione era annullata, in quanto chi non possedeva almeno qualche acro di terra non aveva motivo e anche la possibilità di campare un asino. Tuttavia questa vuota riforma e tante altre simili, chiaramente demagogiche, erano strombazzate dalle classi favorite dal nuovo regime come una conquista di democrazia e di grande attenzione nei confronti della parte di popolazione più povera.
Queste notizie giungevano alle orecchie dello stacciaio Corrado e lo ferivano nel profondo dell’animo: egli aveva amato tutto il suo popolo, ma ora sempre di più si sentiva vicino a quella parte donde proveniva la cara consorte, in atto ancor più  disprezzata e sfruttata dall’avidità dei nuovi dominatori.
                                                                                      *******
Passarono gli anni e la situazione economica si aggravava sempre più; i più ricchi divenivano più ricchi e i poveri, svendendo per sopravvivere il poco che avevano, diventavano più poveri.
La crisi dei ceti popolari si andava spostando verso la piccola borghesia, compresi i militari, a cui l’aumento dei salari appariva un semplice gioco di illusionismo, senza sostanza alcuna. Agrari e commercianti prosperavano, ma tutto il resto della popolazione capì che si stava meglio quando si stava peggio.
Passò ancora del tempo la disperazione portava i più arditi a ribellarsi e le carceri traboccavano di poveretti, che costretti a vivere al limite della sopravvivenza, erano più soggetti a sgarrare per mettere qualcosa sotto i denti.
Malgrado il pugno di ferro del governo la disperazione faceva accorrere il popolo nelle piazze, pur sapendo di poterci restare stecchiti dalle pallottole.
Durante una di queste ribellioni fin sotto il palazzo reale, i soldati ebbero l’ordine di sparare contro i rivoltosi, ma si rifiutarono. La polizia, rimasta fedele al potere reale, cercò di individuare e castigare i traditori, che risposero passando dalla parte del popolo.
La notizia si sparse in tutto il Regno e l’esempio della capitale fu seguito in altre città; le carceri furono aperte, cominciò la caccia agli aguzzini.
Il despota usurpatore, seguito dai suoi fedelissimi fuggì nottetempo proprio nello stato in cui in incognito viveva il re Corrado; questi da uomo prudente attese l’evolversi della situazione, non per vigliaccheria, ma perché preferiva d'essere richiamato in Patria con una chiara deliberazione del Congresso Nazionale.
In ogni città del Regno si formarono dei Comitati di Liberazione e tutti ad unanimità reclamavano il ritorno del loro Re, se fosse ancora vivo.
In tutta Europa non si parlava altro che del legittimo Re e della sua sorte, quando un umile stacciaio, vestito da popolano,  perché non poteva permettersi altri indumenti, si presentò all’autorità del Paese ospite e si qualificò quale legittimo Re di Populonia. Non fu difficile al Re dello Stato ospite di riconoscere nel modesto artigiano il “cugino” di Populonia.
Re Corrado rientrò in Patria con tutti gli onori.
Lascio immaginare ad ognuno il seguito della storia e la morale che se ne può trarre da tutta questa umana vicenda.


« Ultima modifica: 10 Gennaio 2009, 21:51:48 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #9 inserita:: 10 Dicembre 2008, 21:20:36 »

                                                              Piru nnascisti…

Nel nostro dialetto le espressioni col termine piru (piriddu se si tratta di ragazzo) sono molteplici, tutte orientate a descrivere un marpione che in un modo o l’altro vuole averla vinta anche con mezzi poco legali.
Eh, ppiru!
Eh, biddu piru!
Biddu piriddu a setti ‘mmucca!
Poi: Piru nnascisti...  Nel senso che per come si è nati, tali si resta per tutta la vita.
Quest’ultima antica espressione è sostenuta da una storiella con poesia finale
.


Si racconta che in un non meglio precisato paese della Sicilia, gli abitanti erano particolarmente devoti a Cristo Crocifisso, materializzato in un’ antica scultura che affondava le sue origini in tempi immemorabili,  ignoti persino ai più vecchi della zona.
Fra i cittadini c’era una corrente che sosteneva la necessità di rinnovare la vecchia statua il cui legno presentava molti tarli e crepe; altri sostenevano che la vetustà del Crocifisso era il segno di secolare tradizione che andava rispettata.
Una notte d’estate un improvviso temporale aprì le cataratte del cielo con tuoni e fulmini che si abbatterono su casupole e palazzi. Il nubifragio atterrì tutto il popolo, ma miracolosamente non arrecò danno alcuno alle persone.
Non fu risparmiata nemmeno la chiesa, proprio nell’abside nel cui interno sorgeva l’altare con la vetusta statua lignea, che fu lesta a prender  fuoco.
Pronto fu il parroco a dare l’allarme col suono delle campane a martello; sollecita fu la gente ad accorrere al drammatico richiamo: il fuoco fu subito isolato, la chiesa fu salva, ma del crocifisso rimasero soltanto tizzoni fumanti.
L’emozione fu enorme ed ognuno ne trasse un personale auspicio: chi si attendeva genericamente tempi brutti; chi si sentiva in colpa per quella statua che non avevano cambiata prima; altri che il Signore era stanco dei numerosi peccatori e delle nefandezze che sarebbero accadute nella cittadina…
La domenica successiva il parroco, dal pulpito, pose fine a tutte le congetture catastrofiche ed affermò con autorità e fermezza che i temporali fanno parte della natura imperfetta di questa parte del Creato; che essi da che mondo è mondo hanno sempre fatto vittime tra i buoni e i cattivi e che in questa occasione, anzi, si deve ringraziare il Cielo che ancora Gesù, sacrificandosi per loro, ha preferito incenerire la sua immagine piuttosto che gli umani.
Queste parole infiammarono gli animi e il presule approfittò dello stato di viva commozione per invitare il popolo tutto, poveri e ricchi, a collaborare, a seconda della possibilità economica e la prestanza fisica di ciascuno, alla riparazione dell’abside danneggiata gravemente e al rimpiazzo della sacra effigie, commissionando l’opera al migliore scultore che in quel tempo era in voga a Palermo.
Fu contattato l’artista di maggior successo che prima di recarsi sul luogo consigliò che si preparasse un tronco di duro legno e che lo si lasciasse stagionare per molti mesi.
Un pio uomo del luogo, soprannominato u puietu, possedeva vicino al paese un orto fertile che offriva le migliori verdure e i più eccellenti fra i frutti che maturavano nel contado.
Grande onore sarebbe stato per lui quello di potere offrire a Gesù, alla chiesa, al suo paese il legno per il futuro crocefisso.
La pianta più idonea al bisogno era un imponente albero che purtroppo nella sua vita non aveva dato frutti. Fra questo e il proprietario c’era un astio antico tanto quanto durava la sua sterilità. Il poeta ne ammirava la maestosità ma in cor suo riteneva un tradimento a Cristo il fatto di farlo effigiare in un ceppo torpido e sterile di frutti; inoltre si sentiva ancora più in colpa per via del fatto che il sacro dono potesse apparire un’occasione per togliersi dai piedi un peso morto.
Lo guardava bieco, si mordeva le labbra e poi puntando l’indice verso il fronzuto vegetale gli gridava:
- Ti piacerebbe, eh? … ma questo onore non l’avrai mai. Di te farò ceppi per l’inverno se non ti metterai a produrre frutti pari alla tua bellezza.
Giunse il momento della visita della commissione per la scelta del tronco idoneo a divenire Cristo Crocifisso; il poeta indicava gli alberi ritenuti più idonei, saltando l’odiato pero. Tanto però egli cercava di distogliere l’attenzione dei convenuti dall’indegna pianta, più la commissione lo indicava come il preferito.
Il poeta avrebbe voluto spiegare i motivi intrinseci della sua decisione, ma dovette recedere dall’ insistere nel diniego, in quanto temeva di essere frainteso, come s’egli non volesse disfarsi del bell’esemplare, nemmeno come dono a Gesù.
Provetti maestri d’ascia sfrondarono la pianta, la  sezionarono e ne ricavarono massicci tronchi, grossi rami e nodose radici; il tutto fu deposto in un luogo fresco ed asciutto per la lenta stagionatura.
Diversi mesi dopo un carro addobbato con fiocchi e nastrini, fu inviato in Palermo per ritirare l’attesa opera d’arte che benedetta sarebbe divenuta oggetto di culto. Arditi giovani su focosi cavalli scortavano il Crocifisso. La chiesa adornata in pompa magna accolse il prezioso Legno; Sua Eccellenza il Vescovo volle personalmente partecipare alla cerimonia della benedizione e stare in momento così atteso accanto al popolo del borgo devoto al sacro Simulacro.
Il popolo tutto era assiepato nel tempio; nessuno si lamentava della situazione di disagio in cui di fatto si trovava; tutti erano felici che si perpetuava con la nuova statua un’antica tradizione.
Quando la chiesa fu evacuota e il sacrestano ed alcuni volenterosi mettevano in ordine panche e sedie, un uomo, dinnanzi al Crocifisso appena benedetto, sembrava assorto  in preghiera.
Era u puietu che scettico dei poteri che potesse avere un legno appartenuto ad un albero così inetto, si fece il segno della croce per rispetto del Cristo che v’era effigiato e poi:
                                                                              Piru nnascisti ‘ndi n'ortu ccillenti;
                                                                                 pira nna to vita  nun facisti mai;
                                                                                 ora ca di truncu si’ Cristu Putenti
                                                                                 pira 'un facisti e miraculi vo' fari?
« Ultima modifica: 10 Dicembre 2008, 21:22:38 da osvaldo » Registrato

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« Risposta #10 inserita:: 10 Gennaio 2009, 15:21:51 »

Citazione
biddu piru!
lo usa ancora oggi mio padre di tanto in tanto per colorire il disappunto verso qualcuno.
Però è troppo forte la poesia
Citazione
pira 'un facisti e miraculi vo' fari?
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« Risposta #11 inserita:: 10 Gennaio 2009, 18:02:55 »

l 'altra sera mia nipote e rimasta qua a dormire e ankio o raccontata le storie di giuffa.belle ciao
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« Risposta #12 inserita:: 16 Gennaio 2010, 09:45:34 »

Buongiorno , visto che da poco visito questo sito, ho letto le storie di Giufà sono belle anche nella loro semplicità e curiosità, danno sempre uno spunto per far riflettere,infatti me ne ricordo qualcuna ed una delle tante è quella che sto per scrivere. Siccome Giufà era mezzo scemo, nessuno era gentile con lui, nè pensava di invitarlo o di offrirgli qualcosa.Capitò, una volta, che Giufà si trovasse a passare da una masseria e dentro di sè sperava che gli venisse offerto qualcosa. Ma al contrario, degi uomini, vedendolo malvestito, gli sguinzarono i cani contro. Giufà raccontò l'accaduto alla mamma che si preoccupò di procurargli una bella giacca, pantaloni nuovi e un gilè di velluto pensò dunque di recarsi ancora a quella masseria. Furono complimenti e cortesie, a cui seguì un invito a pranzo. A tavola c'era chi lo adulava di qua e chi di là: Giufà stava al gioco e ogni volta che gli portavano il cibo, ne mandava un pò nello stomaco e un pò lo conservava nelle tasche di giacca e pantaloni. A mano a mano che si conservava il cibo nelle tasche diceva: Mangiate, vestitucci miei, perchè è a voi che hanno invitato! Con questa favola, mi permetto di aggiungere una mia opinione, anche adesso credo che succede questo, perchè in giro ci sono molti Giufà , questo potrebbe farci riflettere molto , infatti si guarda molto l'aspetto esteriore senza renderci conto dell'aspetto interiore , l'importante che ci si veste bene per far capire che il sole brilla anche di notte e poi si è vuoti dentro , allora cosa bisognerebbe fare, accettare la persona così com'è anche nel loro aspetto esteriore perchè oltre ci sono grandi animi ed anche se l'abito non fa il monaco ma lo veste solamente per alcuni uomini non fà neanche quello perchè anche se sono vestiti di tutto punto dentro sono vuoti ma vengono accettati perchè vestono bene, ciò significa che si rispetta e mangia solo chi veste bene. Un saluto ad Osvaldo, mi permetto di dirle che con questo semplice racconto non intendo sottrarre nulla ai suoi, anzi ne aspettiamo molti altri ed è sempre un piacere leggerti. Arrivederci a presto
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« Risposta #13 inserita:: 16 Gennaio 2010, 21:33:24 »

Grazie falcopennato; ognuno contribuisce con quel che può. Io quando era a scuola ero bravo ma non ero eccellente nel componimento. Allora era un problema trovare un giornale, un libro... Quando dal Ginnasio di Villarosa [sì c'era ai tempi miei] passai al glorioso Liceo classico di Caltanissetta con Preside Luigi Monaco e professori d'alta qualità quale il prof. d'italiano Giuseppe Granata, poi senatore per molte legislature, il mio voto di scritto era 4 e mezzo! Alla fine dell'anno chiesi al professore cosa potevo fare per migliorare e mi consigliò dei classici: di essi potei comprarne uno solo di edizione economica, La Storia della Letteratura italiana di Francesco De Sanctis, ministro P.I. dei primi governi dell'Italia unita. Piano piano, leggendo e riflettendo ho assorbito il periodare di quel grande letterato (La Storia è un'opera letteraria!) Grazie alla volontà ho superato anni dopo il concorso direttivo con un ottimo voto (primo nella Provincia nello scritto)  e senza raccomandazione!
Scrivo questo non per esaltarmi ma per incaraggiare i giovani.
Per Carnevale ho preparato  il racconto d'un fatto realmente accaduto. L'ho intitolato: Un penoso scherzo di Carnevale
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« Risposta #14 inserita:: 16 Gennaio 2010, 22:01:14 »

CARISSIMO OSVALDO, NOTO CON PIACERE LA TUA GRANDE PAZIENZA E GENEROSITA' NEL VOLERE TRAMANDARE RACCONTI CHE SONO NOSTRI, CI APPARTENGONO IN QUANTO COSTITUISCONO QUELLA CHE E' LA NOSTRA CULTURA E CHE A MIO AVVISO DOVREMMO CONSERVARE GELOSAMENTE...MI PIACEREBBE CHE TRATTASSI DI QUALCHE RACCONTO AMBIENTATO ALLA STAZIONE DI VILLAROSA. MIA MADRE E' CRESCIUTA LI', E NON PERDE OCCASIONE PER RACCONTARMI ANEDDOTI E VITA VISSUTA ORMAI PASSATA, MA CHE LEI RICORDA SEMPRE CON TANTA NOSTALGIA. LEI , COME TANTE ALTRE FAMIGLIE HA TRASCORSO IL PERIODO DEL 1941 IN POI, ESSENDO NATA APPUNTO IN QUELLA DATA, QUINDI SO DI STORIE CAPITATE INTORNO AGLI ANNI 45-55..INSOMMA CHISSA' SE ANCHE TU, ALLORA GIOVINCELLO, SICURAMENTE CONOSCEVI GLI ABITANTI DELLA STAZIONE DI VILLAROSA E CONOSCI QUACHE STORIA PARTICOLARE. MI PIACEREBBE CHE SI APRISSE UNO SPAZIO APPOSITO DEDICATO ALLA STAZIONE DI VILLAROSA, CHISSA' QUANTI DI NOI HANNO SENTITO O VISSUTO QUEGLI ANNI CHE MI VENGONO RACCONTATI COME SPECIALI IN QUEL POSTO E BELLISSIMI...IO POSSO COADIUVARE CON LE MEMORIE DELLA MIA MAMMA E ANCHE CON QUALCHE FOTO CHE SICURAMENTE MOLTI SAPRANNO COMMENTARE, VISTO CHE LA STAZIONE ALL'EPOCA ERA META DI GIOVANOTTI E SIGNORINE..INSOMMA, FATEMI SAPERE.

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