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33.087 Messaggi in 2.232 Discussioni da 1.437 utenti
Ultimo utente: niki
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 21 
 inserita:: 15 Novembre 2011, 22:30:29 
Aperta da il maestro - Ultimo messaggio da pazzotranquillo
Ciao a tutti,
come forse tutti sapete, sono uno dei 3 fondatori di questo sito. Mi scuso se questo portale non è più quello di una volta, mi addosso le colpe per primo. Sono passati tanti anni dal lontano 2006, anno in cui Villarosani.it ha aperto i battenti. All'epoca ero ancora uno studente e riuscivo a trovare il tempo da dedicare al sito. Di tempo ne ho speso tanto, a volte passavo le notti per riuscire a mettere a posto le cose, ma lo facevo con soddisfazione ed il sacrificio era ricambiato da voi, voi che ogni giorno diventavate sempre più numerosi.

Non sono d'accordo con chi dice che era meglio il vecchio "Quelli del Royal" (QdR è il sito sulle cui ceneri è nato Villarosani.it. Era a numero chiuso e si accedeva per raccomandazione), in quanto se siamo cresciuti è stato proprio grazie all'apertura al pubblico del sito. Con il passare degli anni però la mia carriera da studente è terminata e con l'inizio di quella lavorativa il tempo libero è andato via via diminuendo, così come gli utenti attivi sul forum. Facebook di certo ha contribuito al declino, ma non è stata l'unica causa.

Sarebbe bello poter ridare vigore a questo forum, ma per farlo si dovrebbe ristrutturare il portale. Il forum è troppo dispersivo ed il portale contiene troppe informazioni. La mia idea era quella di organizzare il forum in 3 macrostrutture: Storia di Villarosa e racconti di Osvaldo, News ed eventi, Gallerie (Foto e video). Cosa ne pensate? Conoscete qualcuno di Villarosa che si impegni a scrivere articoli?

 22 
 inserita:: 14 Novembre 2011, 16:11:16 
Aperta da il maestro - Ultimo messaggio da il maestro
Buona sera Maestro passavo dopo un pò di tempo di nuovo da questo bellisimo sito ed ho letto il suo scritto ne ho cercati ancora ma mi sembra di non averne visti. Mi dispiace che al suo appello non risponde neanche lei, se tutti ci dessimo da fare per un paese migliore non solo ne trarrebbe benefio quella cosa che per puro caso ci troviamo ad avere e da tutti chiamata materia griggia che per ciascuno e proprio nera, sarebbe un bene per Villarosa e per i Villarosani tutti uniti si ci f forza ma una noce dentro il sacco non fa scrusciu a buon intenditore poche parole, iniziamo a dire la verità a chi ci sta difronte non ne parliamo dietro e poi li si vede insieme al bar a rendersi il caffè ci capiamo o no siamo siciliano o no siamo Villarosani o pecoroni::: Furia

Grazie per il "Lei" amico Falcopennato: questo intervento solo per ribadire che l'oggetto della discussione (e non un "appello") è il significato che ognuno di noi dà o ha dato all'esistenza di questo sito: non devo essere per forza io a dover rispondere ad ogni vostro post: mi basta solo che ognuno di voi dica la vostra, come del resto ho già fatto io.
A presto.

 23 
 inserita:: 12 Novembre 2011, 23:15:24 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
                                                                                    UN VILLAROSANO SENZA CARISMA:

                                                                                         PADRE MICHELE RESTIVO

Ho conosciuto nella mia vita due preti dai modi spicci: del primo che non operò in Villarosa, ma vi era ugualmente noto, ebbi modo di conoscerne il grande animo generoso e disinteressato: non fu ben compreso proprio per il suo fare spontaneo e sinceramente spregiudicato.
L’altro, villarosano, fu padre Michele Restivo che venne a mancare circa trentacinque anni fa. In questo lasso di tempo non mi è capitato di sentir parlare di lui né in bene né in male. Non fu mai un sacerdote popolare, ma di lui non sentii mai proferire maliziosità ad esempio in merito alla sua serietà in fatti di sesso, peccato che nella società paesana era considerato il massimo delle perversioni, mentre si era soliti calare sempre un velo di silenzio ipocrita su atteggiamenti ancor più vili di altri sacerdoti. Nella sostanza su padre Restivo gravava solamente una lieve maldicenza riguardo al fatto che avrebbe concesso ad alcuni del denaro in prestito, ma non fu di certo questo suo comportamento sociale ad alienargli il gradimento popolare, perché non fu mai considerato un usuraio.
La sua impopolarità in gran parte gli derivò invece dalla sua franchezza ed originalità intellettuale, cosa rara in un ambiente dove l’ipocrisia e il perbenismo erano considerate virtù.
In un pomeriggio di tardo inverno  d’uno degli ultimi anni ’30, il quartiere Cozzo fu preso da una strana frenesia: una folla di donne si riversava in piccolo catuju senza finestre e con accesso unico dalla porta, rifugio d’uomini e capra, con focolare semplice tipico d’una famiglia di braccianti agricoli. La padrona di casa stava a controllare il bollore della vecchia pentola, resa lucida come da nero smalto per via degli innumerevoli strati di affumicature sovrapposte negli anni, quando il suo sguardo casualmente si posò sul quadro del Sacro Cuore di Gesù sulla cui superficie erano evidenti rivoli rossastri che colavano lentamente. La donna, impietrita considerò l’evento, lo giudicò straordinario, poi cominciò a gridare al miracolo. Corsero per prima le vicine più prossime e poi quelle più distanti: erano tantissime, quelle vicine all’evento prodigioso non s’appagavano dell’inconsueta testimonianza e non pensavano nemmeno di lasciare il luogo “sacro” per fare beneficiare gli altri della circostanza imperdibile. Nondimeno in breve lasso di tempo la notizia straordinaria  si diffuse per il rione e subito dopo fino in piazza.
Padre Restivo cappellano della Chiesa Madre, appena gli pervennero le prime confuse testimonianze, volle accertarsi senza indugio del fenomeno ritenuto non comune; benchè ancora giovane giunse ansimante al Cozzo, si fece strada tra la folla, all’interno del vano terrano le donne gli resero l’ accesso agevole.
Il sacerdote esaminò serenamente l’ambiente circostante le cui pareti grondavano di fuliggini, polvere e umidità; la spiegazione razionale del fenomeno si presentò evidente; scese il quadro dal muro, lo studiò più da vicino, ne tirò fuori dalla cornice l’immagine su cartoncino lucido che appariva alla vista e al tatto come se fosse stata immersa in un bagno di caffè. Deciso il religioso la strappò e ponendo i brandelli nelle mani della proprietaria le disse: - Domani  vieni in chiesa che te ne darò una nuova.
La donna rimase inebetita, ma le altre più prossime, ansiose di conferme miracolose, gridarono al “sacrilegio”; quelle di fuori non capirono niente e padre Restivo, zitto zitto, trovò più agevole la via del rientro in chiesa.
La vicenda non si concluse tanto pacificamente, tant’è vero che la notizia si sparse per il paese e per molti l’onesto uomo di fede fu considerato esecrabile e miscredente dei segni divini. A non perdonargli la sua soluzione energica e sbrigativa furono i più focosi “difensori” della Fede e quegli altri che vedevano nell’evento prodigioso la possibilità d’un rilancio del paese come meta di pellegrinaggio.
Padre Restivo ebbe ad entrare nella mia vita una sola volta e, in quei pochi minuti che mi dedicò, lasciò un segno che ancora sento vivo nel profondo di me stesso.
Provengo da una famiglia di cattolici non eccessivamente praticanti, ma la mia infanzia e la prima gioventù trascorse più che sulla strada nella Chiesa fin da quando ero “pargoletto”, tant’è che mons. Luigi Scelfo suggerì a mia madre di cominciare ad avviarmi all’idea del sacerdozio. Mia madre ne fu entusiasta e volle esplorarne la mia disponibilità. Prima di dare la risposta, posi una precisa domanda:
 - I preti si possono sposare?
Alla risposta negativa della mamma, resi nota la mia intenzione: un giorno avrei voluto prendere moglie ed avere dei figli. Coerente con la mia scelta e per difenderla, non volli mai perfino vestirmi da chierichetto perché vedevo in quella tunichetta una forma di compromissione all’idea di monsignore.
Sono stato e resto della stessa opinione anche oggi che sono anziano e nonno.
Non amavo interminabili rosari e lunghi riti, perché li ritenevo noiosi, ripetitivi e inducenti alla distrazione e al far vagare la mente in sconfinati pensieri non sempre pertinenti al sentimento religioso. Ero attratto dalle prediche semplici e ricche d’aneddoti, parabole, similitudini e racconti allegorici.
Il Giovedì Santo d’ogni anno, subito dopo aver consumato il magro pranzo d’un giorno di Passione, mi precipitavo alla Madrice per occupare i posti migliori, per me e i familiari, per potere seguire meglio le Sette Prediche che erano tenute da un religioso forestiero di anno in anno sempre diverso.
Un anno fu  Padre Restivo a proporsi come oratore del Giovedì Santo; la notizia fu accolta di malanimo dai fedeli, me compreso, perché era lunga tradizione la novità del predicatore forestiero.
Fummo smentiti tutti perché scoprimmo nel prete locale una focosa oratoria e ad un tempo un linguaggio semplice accessibile a tutti.
Fu in quel periodo e sicuramente durante la frequenza della quarta ginnasiale che io entrai in un’inconfessabile crisi spirituale che mi trascinai come pesante fardello per molti mesi. Non indotto da nessuno la mia anima fu sconvolta da pensieri che mettevano in discussione con me stesso certi aspetti della mia religione; ero certo di essere in peccato mortale, tenevo nel cuore il mio segreto e non aprivo il mio dubbio nemmeno ai familiari e agli amici più intimi. Quando il macigno che gravava sul mio petto non accennava a  lasciarmi decisi finalmente di “consegnarmi all’inquisitore”.
Ma quale sacerdote doveva raccogliere  in confessione la vampa che distruggeva l'anima mia? La scelta non era ampia. Monsignore non lo trovavo idoneo per via dell’età avanzata e poi perché non volevo arrecar dolore a chi aveva visto in me un futuro buon sacerdote; padre Callea, il mio professore di religione, affetto da gravissima miopia tanto che lo prendevamo in giro leggendogli  direttamente sul catechismo che egli teneva in mano le risposte: egli non avrebbe capito nulla dell’inferno che turbinava nel mio cuore…
Restava solamente padre Restivo, famoso per le sue messe ridotte all’essenziale, sempre indaffarato e sbrigativo; speravo tanto che fosse più largo manica e che avrebbe risolto il mio angosciante problema in modo spicciativo.
Un sabato pomeriggio mi misi in fila per la confessione.
M'ero appena inginocchiato al confessionale, quando mi disse: - Aspetta un momento che torno subito.
L'imprevisto disguido mi fece sperare in una più distratta soluzione al mio dilemma; ne stavo gioendo in cuor mio, ma mi assalì l'altro dubbio: - Potrò ingannare Padre Restivo, ma Dio no. Così giurai a me stesso che nulla avrei fatto per eludere furbescamente il mio penoso dubbio.
Il padre finalmente tornò e disse: - Allora... Dove eravamo giunti?
Ed io: - Padre, non abbiamo ancora cominciato.
Lui:    - Allora dimmi tutto.
Io non fui capace di profferire nemmeno dei monosillabi.
Lui: - Insomma perchè sei venuto?
Io:      - Perchè, Padre, sento di essere in grave peccato mortale.
Un attimo di profondo e pesante silenzio.
Lo ruppe Padre Restivo: - Comincia da capo, punto per punto e senza fretta.
Le sue parole mi fecero male e pensai: lui che va sempre di fretta, stavolta mi vorrà fare la festa e cucinarmi a fuoco lento.
Io, con una vocina umiliata: - Padre, io non credo più con la fede di una volta.
- Continua, mi fa il sacerdote.
- Vorrei spiegarmi tanti punti della religione che mi inchiodano fino al punto che o credo per fede o mi trovo in peccato.
Tacqui e lui: - Continua.
Ed io: - Giudico i riti e le processioni come forme di idolatria; le lunghe preghiere mi sembrano tiritere per ingannarci fra noi credenti mentre la nostra mente vaga per sentieri lontani e non sempre puri.
Padre Restivo: - Della nostra religione cosa ti resta allora?
Ed io: - Tanto mi resta ancora: Gesù col Vangelo, la vita dei Santi, le prediche che non alzano il dito per minacciare sempre castighi eterni…
Seguì un lungo silenzio. Con l'immaginazione mi riportai a quei film in cui la Corte si chiude in Camera di Consiglio per emettere il verdetto
- Che classe frequenti
- A ottobre frequenterò la quinta ginnasiale...
Ce ne capivo sempre di meno, ma continuai ad attendere per vedere dove andava a parare con quegli argomenti che per me restavano sempre più un mistero fuori tema.
- Quindi tu quest'anno hai studiato una geometria diversa di quella della scuola media, no?
- Certo… certo – risposi io.
Ed egli: - Finora per te ragazzino la geometria ha affermato un principio e tu l' hai accettato; da quest'anno in poi invece per ogni affermazione sei stato indotto a cercarne la dimostrazione. Così tu trovi naturale trasportare tale criterio nei fatti religiosi; ma in questo campo tutto è diverso. Ricorda però che la tua crisi non è causata dalla geometria,  ma dalla natura umana: tu sei in piena crisi d'adolescenza. Vai tranquillo: non hai peccato. Hai altro da confessare?
Tra il felice e il confuso cercavo altri argomenti, ma il sacerdote, ritornando ad essere lo sbrigativo che conoscevo, mi licenziò senza che io potessi replicare.
Era un radioso e insolitamente fresco pomeriggio di luglio, uscii dal portone principale della Matrice; sotto me il sagrato, la piazza, la torre dell'orologio e poi un cielo terso.
Da poco avevo incontrato la poesia più breve che abbia conosciuto; allargai le braccia e gridai a gran voce:
- M'illumino d'immenso.
Al prete che strappò la materia del falso miracolo del Cuore di Gesù non fu risparmiato il biasimo, allo  stesso che tempo dopo diede pace ad una giovane anima in pena, nessun merito.
Egli pagò a caro prezzo la sua libertà di spirito perché non divenne mai parroco al suo paese. Proprio lui che per lungo tempo aveva retto materialmente la parrocchia negli ultimi tempi della vecchiaia di mons. Scelfo. Pur se mortificato dai suoi concittadini, non fece cenno alcuno di risentimento.
Come Cristo che non potè essere profeta in patria, padre Restivo non potè formalizzare la mansione che aveva svolto per qualche decennio.
Il suo Vescovo ammirò la sua elegante mancanza di spiacevole reazione e lo propose come cappellano su navi passeggeri. Il maturo sacerdote trascorse sul mare gli ultimi anni della sua esistenza, lontano dalle miserie di sacrestia e visse a contatto di tristi emigranti e allegri turisti, sempre sicuramente pronto a sostenere la parte di sacerdote presente nella gioia e nel dolore.
Ogni estate tornava in ferie al suo paese col suo abito talare fregiato dei galloni di ufficiale di marina. Faceva la sua apparizione in giro per salutare gli amici più sinceri e cari e si ritirava al Giurfo a godersi il fresco delle serate.
A oltre 60 anni da quell'estate di mio tormento interiore oggi sento il dovere di tentare io stesso a ricordarlo ai villarosani: è il meno che si possa fare per non condannare nell’oblio un villarosano senza carisma e senza ipocrisia.

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 inserita:: 11 Ottobre 2011, 17:49:11 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
osvaldo, sei sempre il nostro navigatore...della storia villarosana
Grazie. Sei troppo buono perchè il merito è soprattutto della mia età...

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 inserita:: 10 Ottobre 2011, 22:59:03 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da Rommel
osvaldo, sei sempre il nostro navigatore...della storia villarosana

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 inserita:: 04 Ottobre 2011, 18:59:38 
Aperta da un amico al bar - Ultimo messaggio da un amico al bar
L'alunno M. lancia un pezzo di gesso al compagno F., il quale simula di essere stato colpito

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 inserita:: 03 Ottobre 2011, 21:54:24 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
Una fredda incruenta vendetta

La nostra via Milano, la più lunga dopo il Corso Garibaldi, si estende “da muramma”, oggi via Cossa, fino “a stratella”, il corso Regina Margherita; essa taglia in due il rione Cavour, il più grosso del paese, e dal lato sud della stessa iniziano in parallelo  le vie in salita  che portano al quartiere più  alto, “u Cuzzu”, che si estende “de Vaschi finu o Cummentu”.
E’ “a strata de’ Santi” per eccellenza perché la più lunga fra le altre.
Mi sto dilungando a parlare della via Milano per un valido motivo di cui forse in pochi in Villarosa saranno a conoscenza: essa non fu così nominata in onore della metropoli lombarda, ma in omaggio ai Milano, famiglia imprenditrice di “gabelle” di zolfo, il cui ultimo rappresentante, che io bambino conobbi, fu don Ciccio, la cui abitazione aveva l’ingresso principale alle camere sulla via Notarianni, ma la proprietà si completava nei  “catòja” sottostanti, che s’affacciano proprio sulla via Milano.
Non fu l’unica famiglia a imporre il proprio cognome alla toponomastica cittadina: via Butera, Genco, Torregrossa, Notarianni, Falzone, Casale, Deodato, Manganaro e tantissime altre sono ancora i segni ben visibili del tempo in cui la gente comune non aveva alcun potere e la città era retta solo da persone il cui censo concedeva loro il diritto all’elettorato attivo e passivo.
Il più rappresentativo della famiglia Milano fu Giovanni, noto a tutti come don Vannuzzu, che fu più volte sindaco di Villarosa sul finire dell’800.
La via della democrazia, come sempre, è irta d’immense difficoltà. Dell’impresa garibaldina il grosso del popolo siciliano capì ben poco, ma sperava tanto che qualcosa potesse cambiare anche per le classi più povere, con una più umana riforma agraria e con una meno ignobile condizione dei “carusi” che entravano nel sottosuolo a cominciare dai sei anni, strappati ai giochi e alla scuola che non avrebbero mai conosciuta. A queste giuste e sacrosante aspettative non seguì nulla, anzi all’alterigia dei nobili s’aggiunse quella dei borghesi che imitarono in tutto i più antichi modelli e, pavoneggiandosi come “galantuomini”, disprezzavano il popolino più di quanto avessero fatto le classi dominanti precedenti. I borghesi, grazie al loro reddito, furono eletti nelle amministrazioni locali in combutta con la nobiltà e imposero con pugno di ferro alla comunità tutto ciò che favoriva i loro personali interessi.
Non tutto il popolo era acquiescente a tale stato di cose, tant’è che le ribellioni furono frequenti e molti preferivano darsi alla macchia pur di sfuggire alle inevitabili ritorsioni dei potenti.
In quegli anni fu in foga fra i giovani del popolo la moda, in sé innocua, di sfoggiare con una certa baldanza un superbo ciuffo di capelli fatto crescere con tanta cura, quasi a volerlo contrapporre all’arroganza della nuova classe. Tale forma di pacifica sicumera poteva di per sé non essere considerata tanto pericolosa, ma la borghesia, temendo che essa fosse l’anticamera di ribellione o futura affiliazione al banditismo, mal sopportò tale borioso portamento.
Don Vannuzzu Milano, nella qualità di sindaco, fu in testa fra tutti a darsi da fare al fine di stroncare tale usanza, giungendo a prepotenti vie di fatto. Si procurò un’affilatissima forbice da barbiere, che teneva costantemente  nel taschino a sinistra della giacca, e la domenica pomeriggio si tratteneva in piazza, spalleggiato da propri sostenitori e con a vista la vigile presenza delle guardie  municipali, sempre pronte a distribuire nerbate a ragazzi scapestrati o a maturi ribelli.
Quando egli vedeva emergere tra la folla un pomposo ciuffo chiamava a sé il giovanotto e in men che non si dica glielo devastava con una decisa sforbiciata. L’istinto alla naturale reazione veniva frenato dagli amici del malcapitato che temevano seri grattacapi e dal gruppo di tirapiedi del sindaco che gli facevano corona.
Da quel momento tutti i giovani portatori orgogliosi del pomposo ciuffo fecero di tutto per evitare l’umiliante sopruso, tenendosi ben lontani dallo sforbiciatore o facendo finta di non sentire la sua autorevole chiamata.
Lo sconsiderato gesto fu giudicato dall’opinione pubblica in genere e dai giovani in particolare piuttosto oltraggioso, tanto che rimase vivo nella memoria collettiva. Non si creda però che un tale sopruso sia stato un raro episodio, il De Simone parla di un funzionario del Duca di Notarbartolo,  (allora si esigeva ancora il censo sulle terre)  il quale il pomeriggio si divertiva al balcone del palazzo ducale con un fucile ad aria compressa a spezzare la canna delle pipe degli zolfatai che stavano a crocchi a discutere in piazza, fin quando le vibrate proteste fecero recedere da tali bestiali borie.
Intanto l’irrisolta questione socio-economica spinse tantissimi a arrischiare l’avventurosa via dell’Oceano per raggiungere gli Stati Uniti, terra promessa di benessere e libertà.
Le rimesse in dollari di tali emigrati sconvolsero nel giro di poco tempo l’arcaica economia siciliana perché il prezzo degli immobili salì alle stelle, tanto che i compratori locali, vittime di tale scompiglio che vanificava il legittimo diritto a farsi una casetta o un podere da coltivare, andavano ripetendo tristi e scombussolati: “Simu cunsumati, sti sordi miricani nun sunu scuttati ppi nnenti”.
Persino piccoli imprenditori e gabelloti di pirrera, stupiti da questi improvvisi guadagni, presero in seria considerazione la possibilità di tentare maggior fortuna in quella ricchissima terra.
Uno di questi fu don Vannuzzu Milano.
Il suo arrivo negli States fu accolta con gioia dai villarosani, compresi quelli che politicamente si sentivano lontani da lui: era un pezzo di Bellarrosa che veniva incontro a loro.
Non c’era festa o ricorrenza in cui non fosse invitato speciale il rappresentante della patria remota.
Ma non tutti la pensavano allo stesso modo: ad alcuni bruciava ancora l’umiliazione subita nella pubblica piazza.
Intanto giunse a Villarosa la notizia di un trattamento di mala creanza riservato all’ex primo cittadino in quella terra lontana, ma altri più precisi particolari non si poterono conoscere perché per lettera nessuno volle esporsi a riportare dettagli scabrosi o a fare commenti che avrebbero tradito i sentimenti di chi scriveva. 
Mille e mille furono le congetture, ma nemmeno la più forbita  delle immaginazioni riuscì a cogliere la crudezza della traversia vissuta  da don Vannuzzu.
Dopo il rientro da Brucculinu  dei primi paesani fu possibile ricostruire con qualche approssimazione l’accadimento.
Tre villarosani, presunte vittime delle antiche sforbiciate, ordirono un agguato notturno al ritorno di don Vannuzzu da una delle feste alle quali era di consueto chiamato come ospite d’onore.
La manipolazione della materia prima da usare presupponeva un reale rischio di antipatico imbrattamento anche a carico dei vendicatori, così decisero di tirare a sorte  chi dei tre avrebbe fornito la sostanza e affrontato di petto la vittima, mentre gli altri due avrebbero immobilizzato con le robuste braccia il malcapitato.
Il sorteggiato si sentiva il più impegnato perché gli toccava di organizzare il piano esecutivo. Ma quando vide che il figlioletto, intento a giocare con una vescica di maiale che egli stesso gli aveva procurato e gonfiato per giocarci a mo’ di palloncino, capì che la parte più antipatica dell’esecuzione poteva considerarsi superata.
Quando tutti in casa dormivano scese giù in giardino e operò con pazienza sulla vescica; la riempì fin dove poté, la serrò con un nodo al collo della stessa e la nascose sotto il terriccio.
L’occasione si presentò come previsto la notte successiva. Don Vannuzzu lasciò la compagnia degli amici che l’avevano ben gradito.  Aveva mangiato di gusto e bevuto altrettanto. Per far più presto si avviò per stradette secondarie poco illuminate che di già ben conosceva; ad un certo punto, spinto da un impellente  bisogno, s’accostò ad un muro per svuotare la vescica, offrendo agli aggressori facilità di presa;  fu immobilizzato e messo a tacere con uno straccio infilato in bocca; qui intervenne  il terzo personaggio che aveva  il compito di completare l’agguato; gli serrò con possenti dita le narici; il malcapitato mollò la straccio e istantaneamente si senti inondare bocca, faringe e giù di lì di una materia nauseante il cui fetore ne tradì la natura. Liberato dalla morsa essa subito fu sputata, spruzzata, vomitata.
Il malcapitato, pur stordito e ottenebrato nelle facoltà mentali, tentò di liberarsi dell’imbrattamento ma subito capì che non ce l’avrebbe fatto con gli scarsi mezzi che aveva; concluse che non era il caso di presentarsi a casa in quelle pietose condizioni e scelse alla fine di servirsi di un bagno pubblico dove offrì l’inumano spettacolo a quanti si trovarono ad entrare per i loro normali bisogni o altri per godersi, come per caso, l’inusuale scena.
In paese nei mesi successivi non si parlò d’altro, con opposti commenti.
La superiore versione fu riferita da un emigrato rientrato da Nuova York ad un pubblico attentissimo in coda ad un’assemblea ordinaria di soci della Società Umberto I. La testimonianza era stata sollecitata con gelicatezza dal Presidente del Circolo in persona.
Egli stesso alla fine chiese se fossero noti i nomi dei tre “vendicatori” di tutti i giovani bellarosani offesi nel passato.
L’emigrato rispose:
- Pe’, Ja’ e Calò
Il Presidente, afferrato il senso della risposta, con un garbato sorriso chiuse il discorso, tacendo.
Al contrario, concitato al massimo, prese la parola uno di quelli che era stato in passato tra i tirapiedi di don Vannuzzu protestando energicamente contro tanto mistero in quanto i tre screanzati dovevano pur avere un cognome o na ngiulia…
U miricanu , con un altro significativo sorriso, bloccò ogni successiva replica, citando un detto allora molto in voga nei paesi a noi vicini:
Pe’ Ja’ Calo’ su’  tutti di Bellarrò!

 28 
 inserita:: 03 Ottobre 2011, 12:50:03 
Aperta da osvaldo - Ultimo messaggio da osvaldo
La casa di don Turiddu Curione esiste ancora e la stessa fu antecedentemente della famiglia del poeta Vincenzo De Simone: accanto al portone c'è una targhetta marmorea che ne ricorda la nascita. L'abitazione è ben visibile davanti agli occhi nostri nel quadro della signora Santina Cannata nella Home Page di questo sito. A far giù dalla civica torre dell'orologio ci sono varie colonne di appartamenti, quello del Curione in giallo è caratterizzato dai vani terrani ad arco e dai frontespizi ai  balconi.

 29 
 inserita:: 02 Ottobre 2011, 16:50:25 
Aperta da TEX - Ultimo messaggio da Rommel
Ringrazio  falcopennato e toliveri: siete stati gentilissimi. Finalmente vedo mio nonno fra i suoi fratelli e le maestranze seduto come un vero ...patriarca!! Il pastificio era quindi in v.solferino ang.v.Deodato. Sapete darmi l'indirizzo della sua palazzina a Vilarosa? So che l'immobile si trovava all'incrocio con un corso principale. Scusatemi ma non conosco Villarosa (ci sono stato una volta sola di passaggio senza potermi fermare e chiedere). So anche che aveva una proprietà estiva (villa) in contrada "giulfo": dove si trova? Esiste ancora?  Grazieeee. TEX

esiste ancora prova con google map è visibile

 30 
 inserita:: 26 Settembre 2011, 14:31:42 
Aperta da TEX - Ultimo messaggio da jack_sparrow
Abito da una vita in Via Buonarroti ma ho sempre avuto una vaga indicazione di dove una volta era il Mulino.
Correggetemi se sbaglio ma a questo link dovrebbero essere visibili le finestre di quel che resta dell'allora mulino:

http://maps.google.it/maps?q=Via+Deodato,+Villarosa&hl=it&ll=37.586622,14.170561&spn=0.004804,0.009645&sll=41.442726,12.392578&sspn=18.588764,39.506836&vpsrc=6&t=h&z=17&layer=c&cbll=37.586593,14.170703&panoid=7nGdbXOsSJPPDjpBUFxHvg&cbp=12,63.16,,0,4.47

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Benvenuto in Villarosani.it, il primo portale per i villarosani. Se non sei villarosano sei comunque il benvenuto!
Comune di Villarosa (Provincia di Enna - EN) -C.A.P. 94010- dista 101 Km. da Agrigento, 29 Km. da Caltanissetta, 117 Km. da Catania, 20 Km. da Enna, alla cui provincia appartiene, 213 Km. da Messina, 141 Km. da Palermo, 165 Km. da Ragusa, 192 Km. da Siracusa, 240 Km. da Trapani. Il comune conta 6.162 abitanti e ha una superficie di 5.501 ettari. Sorge in una zona collinare, posta a 523 metri sopra il livello del mare. L 'attuale borgo nacque nel 1762 ad opera del nobile Placido Notarbartolo. Fu sempre centro economico molto attivo, in particolare nel XIX secolo quando vennero rese funzionanti numerose miniere zolfifere presenti su tutto il territorio. Nel settore dei monumenti è importante ricordare la Chiesa Madre del 1763 dedicata a S. Giacomo Maggiore. Rilevanti sono pure Il Palazzo S. Anna, il Palazzo Ducale e l'ex Convento dei Cappuccini entrambi del XVIII secolo.